Interviste

Quasi in ogni famiglia italiana allargata c’è un parente in America: intervista a Umberto Mucci

di EMANUELE PETTENER

Umberto Mucci ha ricoperto il ruolo di co-direttore, all’interno della rivista èItalia, della sezione dedicata all’Italia negli Stati Uniti “èItalia for USA”; rappresenta in Italia l’Italian American Museum di New York ed è fondatore e CEO di “We the Italians”.

Cos’è “We the Italians” e quali sono i suoi scopi?

We the Italians è una media company dedicata a migliorare la conoscenza ed i rapporti tra Italia e Stati Uniti, con un particolare focus sul mondo di tutti coloro che sono italiani – di nascita, di origine, di sangue, di spirito – e vivono in America. Il nostro nome è un tributo alle prime tre parole della Costituzione americana: “We the people”. Abbiamo come motto “Two Flags, One Heart”, che è anche la descrizione del nostro logo: il nostro cuore ha una parte italiana e una americana, rappresentate dalle due bandiere. Il nostro scopo è quello di arrivare un giorno ad essere la risposta alla domanda: Quale nome ti viene in mente se pensi a come l’Italia si promuove e comunica in America? L’ambizione non ci manca.

Siamo portati a pensare all’italoamericano come a un individuo di nascita americana di origini italiane (un’immagine, fra l’altro, ancora associata a stereotipi).  Eppure a me sembra che lei smentisca il concetto in prima persona: nato in Italia, residente in Italia, ma italoamericano.  Se la mia non è una percezione sbagliata, in cosa consiste la sua italoamericanità?

Non sono un sociologo, e so che ci sono studiosi molto più bravi di me che si sono esercitati a lungo e con successo nello studio di chi è definibile italoamericano e chi non lo è. Per facilità, io tendo ad immaginare gli italoamericani come quei quasi 17 milioni di americani che hanno origine italiana, mentre coloro che sono nati qui in Italia e poi sono andati in America sono coloro che io chiamo “Italiani in America”. Ma sono solo convenzioni: secondo me è italiano chiunque abbia origini italiane, e guai a chi glielo nega. Una volta uno dei più meravigliosi italoamericani che io conosca, John Viola, che ho la fortuna e il piacere di definire un amico, mi disse che secondo lui io ero un “honorary Italian American”. È un titolo (più che … onorario) di cui mi faccio vanto, per chi l’ha coniato, scherzando, e per il rispetto e l’amore che nutro verso gli italoamericani. La mia italoamericanità sta nella convinzione che l’Italia e gli Stati Uniti, pur con i loro difetti, sono i due migliori Paesi al mondo: e che l’unione tra i due dà vita ad una comunità, anch’essa non perfetta perché nessuno lo è, che spesso assomma il meglio dei due Paesi. Secondo me “Italy needs more America” e anche “America needs more Italy” e quando lo dico specifico sempre che non bisogna credere a me, ci sono 17 milioni di persone che ne sono testimonial: non è un’idea astratta, è una concreta meravigliosa realtà.

Quali preconcetti riguardo l’identità italoamericana resistono ancora – e in che misura l’italoamericano stesso ne è in qualche modo complice?

Rimango sempre stupito dalla differenza che c’è negli Stati Uniti tra la grande ammirazione verso gli italiani che vivono in Italia e quella sorta di sufficienza con cui troppo spesso si trattano gli italoamericani, intesi come sopra. Questi ultimi hanno dato un contributo determinante alla grandezza degli Stati Uniti in ogni possibile campo, ma sembra che nei mainstream media siano descrivibili solo o comunque troppo spesso esclusivamente con offensive generalizzazioni che partono dalla mafia e spaziano tra buffoni e bimbette del New Jersey, idraulici che parlano inglese con uno strano accento e bruti sovrappeso senza grazia alcuna. Se si vanno a vedere i numeri, invece, gli americani di origine italiana condannati per mafia sono una percentuale talmente minuscola rispetto ai milioni di italoamericani nella storia che non meriterebbero alcuna menzione statistica, tipo quei numeri con lo zero, la virgola e altri quattro o cinque zeri prima di una cifra diversa. Ancora oggi nel mondo dello spettacolo, tra film e fiction televisive, pubblicità e video musicali, ma anche nei cartoni animati e persino nei videogiochi, i personaggi positivi italoamericani si contano sulle dita di una mano, ma spesso ci si imbatte in criminali, assassini, ignoranti e goffe macchiette. In un Paese così attento al politicamente corretto, è una clamorosa eccezione che sinceramente ritengo inaccettabile, perché non si limita all’offesa, ma genera da tempo seri danni. Certamente una piccolissima minoranza tra gli italoamericani ne è in parte responsabile, prestandosi a tutto ciò e anzi a volte manifestando un malcelato orgoglio in questi stereotipi. Ma danneggiano la stragrande maggioranza degli altri, che non meritano questi stereotipi.

Qual è secondo lei il più importante contributo italoamericano al patrimonio culturale degli Stati Uniti?

Ce ne sono tanti, in ogni campo. Faccio tre esempi, nei quali ovviamente il giudizio è soggettivo e non pretendo che debba per forza essere condiviso da tutti. A mio avviso, il più grande sportivo americano di tutti i tempi è stato Joe DiMaggio. Il più grande entertainer americano di tutti i tempi è stato Frank Sinatra. La più incredibile opera d’arte mai realizzata in America è composta dai volti dei quattro Presidenti a Mount Rushmore, scolpiti e modellati da un italiano emigrato in America, Luigi Del Bianco. Ma sono solo tre esempi: più in generale, il percorso degli italiani in America nel corso degli ultimi 150 anni, dall’emigrazione senza nulla in tasca verso una terra ostile e sconosciuta al far parte oggi di una comunità eccezionale e stabilmente nei più alti percentili di reddito e successo, è forse la più grande dimostrazione della realizzazione del sogno americano.

Arrivati al 2021, quali sono oggi l’atteggiamento e la considerazione italiani nei confronti del mondo italoamericano?

Purtroppo l’Italia di oggi non si cura dei suoi figli che vivono all’estero, non solo in America. A me sembra ci sia una inconscia e approssimativa considerazione di questi italiani come se fossero figli di un dio minore, o semplicemente italiani di serie B: ma non c’è una volontà precisa dietro a questo, piuttosto c’è un’eccessiva concentrazione su sé stessi, solo su ciò che avviene intorno a noi, al nostro ombelico – dal quale l’America è lontanissima. La cosa strana è che quasi in ogni famiglia italiana allargata c’è qualche parente in America: ma generalmente, il Paese tende ad ignorare questi italiani, ritenendo a torto e superficialmente che siano più un fardello che una risorsa. È un errore secondo me gigantesco e imperdonabile dal punto di vista patriottico, culturale, economico, diplomatico.

Cosa potrebbero o dovrebbero imparare gli italiani dagli italoamericani, e gli italoamericani dagli italiani?

Noi italiani che viviamo in Italia, se interpreto bene la domanda, dovremmo imparare ad amare e ad apprezzare di più il nostro Paese: dovremmo imparare a smettere di considerare “all’italiana” un’espressione per definire qualcosa fatto male, e cominciare ad imparare a usare l’espressione gemella nella lingua inglese, “italian style”, come qualcosa che descrive l’eccellenza. Credo che non esista altro Paese al mondo a proposito del quale un’espressione come questa significhi due cose opposte: ma la cosa ancora più incredibile è che l’accezione negativa è quella usata nel Paese stesso! Credo che dica molto di cosa dovrebbe imparare l’Italia dagli italoamericani.

Invece penso che gli italoamericani – non tutti, ma diversi – dovrebbero imparare dagli italiani che vivono in Italia la scelta delle … cravatte. Mi sembra chiaro quanto adoro la comunità italoamericana, ma ho visto cose che gli altri italiani che vivono qui in Italia non possono neanche immaginare (per fortuna)…

Tocco un nervo scoperto: la questione Colombo, che sta spaccando in due la stessa comunità italoamericana. Dall’Italia, qual è il suo pensiero?

È un tema molto lungo e complicato. Cercando una sintesi, io penso che sia semplicemente ridicolo giudicare un navigatore del XV secolo con i parametri che usiamo oggi su twitter sdraiati sul divano, e che non sia accettabile negare ad una comunità la facoltà di scegliersi i suoi simboli. Non lo sarebbe nemmeno se questo atteggiamento nascesse da una rigorosa, certificata e accurata analisi storica: e non c’è invece niente di tutto ciò. C’è una guerra ideologica che ha preso come capro espiatorio qualcuno che non si può difendere, e indirettamente colpisce una comunità che non è mai stata brava né a protestare contro l’ingiusta serie di stereotipi della quale è sempre stata oggetto, né a reagire compatta. In tutto questo, che giudico inaccettabile, vergognoso e orrendo, esplode assordante il silenzio dell’Italia, che tace, finge di non vedere, accetta ogni offesa ad un suo grande pioniere del passato senza muovere un dito, salvo un paio di encomiabili eccezioni. Devo ammettere che io sono innamorato follemente dell’America, e pieno di gratitudine per il Paese senza il quale mio padre sarebbe stato ucciso dai fascisti nella seconda guerra mondiale e io non sarei mai esistito: ma questi attacchi a Colombo, gli insulti alla comunità che l’ha scelto come simbolo, le violenze contro le sue statue che rappresentano molto di più di un semplice pezzo di marmo, sono cose che mi feriscono profondamente. Rispetto ovviamente quegli italoamericani che più o meno convintamente si uniscono al coro di critiche contro Colombo, ma temo che sbaglino molto e si rendano utili a chi umilia anche loro, per l’obbedienza a un credo ideologico e molta ignoranza. Non accetterò mai che a difesa dei sacrosanti diritti civili di una minoranza si calpestino quelli di un’altra minoranza: meno che mai se quando si vuole giustamente difendere la minoranza di colore si finisce per allinearsi perfettamente con il Ku Klux Klan, che cento anni fa colpiva Colombo per il suo essere simbolo della libertà religiosa e del contributo degli immigrati alla società americana.

Piuttosto di allinearmi col Ku Klux Klan, preferisco stare dalla parte dei tre astronauti che presero parte alla missione dell’Apollo 11, non propriamente gli ultimi allocchi, i quali capirono che l’unica impresa della storia dell’uomo paragonabile alla loro era quella di Colombo, e chiamarono Columbia la loro navicella. Chi attacca Colombo ha scelto la prima strada quando s’è trovato davanti al bivio, capisco bene che dia fastidio sentirselo dire ma io invece scelgo la seconda e su questo non taccio.

(L’immagine di copertina è di Barbara Di Bernardo)

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1 commento

  1. Dal mio parere modesto, voglio dire che Umberto Mucci sa la storia cultura Italo-Americano meglio di novanta nove percento degli Italo Americani in America.

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