Eventi e Festival, Interviste

Attraverso John Fante riscopriamo la nostra storia, quella della grande emigrazione: intervista a Giovanna Di Lello

di EMANUELE PETTENER

Giovanna Di Lello, direttrice del John Fante Festival “Il dio di mio padre” dalla prima edizione (2006), è giornalista, documentarista e organizzatrice di eventi culturali. Laureata in Lingue e Letterature Straniere all’Università “G. d’Annunzio” di Chieti e Pescara, ha conseguito un Master in Economia della Cultura all’Università “Tor Vergata” di Roma. Ha realizzato diversi documentari, tra cui John Fante. Profilo di scrittore (2003), A Dream In The Purple Sea. Pascal D’Angelo (2006) e Il razzismo indiscreto degli americani. Incontro con Noam Chomsky sull’immigrazione negli Stati Uniti (2007); ha curato con Toni Ricciardi Dalla parte di John Fante: scritti e testimonianze (Carocci, 2020).

Lei dirige un festival ormai famoso, “Il dio di mio padre-John Fante Festival”, alla fine d’ogni estate a Torricella Peligna (il paese abruzzese ove nacque il padre di Fante). Può raccontarci brevemente di cosa si tratta e quali sono state, negli anni, le soddisfazioni più intense di questa esperienza?

È una soddisfazione già sentire da lei che è un festival ormai famoso! In effetti il John Fante Festival “Il dio di mio padre” piace agli addetti ai lavori e suscita un certo interesse nella stampa nazionale, oltre ad essere diventato un appuntamento fisso per gli appassionati di John Fante.

La nostra manifestazione, istituita nel 2006 con la mia direzione artistica, è un omaggio a John Fante fortemente voluto dall’amministrazione comunale di Torricella Peligna, tant’è che ne è l’organizzatore. Questo borgo abruzzese di montagne ha dato i natali al padre dello scrittore, Nick Fante, che nel 1901 emigra negli Stati Uniti.

Il festival, che si svolge ogni anno a Torricella Peligna a fine agosto, si sviluppa intorno all’opera e alla biografia di Fante per poi diramarsi in numerose sezioni multidisciplinari con un’attenzione particolare per l’incontro tra culture diverse. La manifestazione ha al suo interno anche due premi letterari. Il Premio John Fante Opera Prima, che intende sostenere gli scrittori esordienti prendendo spunto dalle vicende di Arturo Bandini, il giovane protagonista dei romanzi di Fante della saga Bandini che sogna di affermarsi nel mondo attraverso la sua scrittura. E poi c’è il Premio alla Carriera John Fante-Vini Contesa, nato dalla collaborazione con la prestigiosa cantina abruzzese Contesa di Collecorvino, che ha dedicato a Fante due dei suoi vini migliori, un Pecorino e un Montepulciano.

Quanto alle soddisfazioni di questi anni, posso dire che ogni singolo ospite è stato per me motivo di gioia perché scelto con cura e in coerenza con il programma. Per cui tutti gli eventi organizzati sono stati per me fonte di soddisfazione. Se devo però scegliere un evento emblematico di questo festival, scelgo senza esitazione il reading musicale che si è tenuto a Torricella Peligna nel 2012 in omaggio a John Fante, con Sandro Veronesi, Vinicio Capossela e Dan Fante, il figlio di John, i quali, insieme all’attore italoamericano Ray Abruzzo e all’attore abruzzese Domenico Galasso, si sono esibiti in una jam session letteraria dai contorni magici offrendo al pubblico una performance unica e irripetibile. Un’altra bella soddisfazione è stata quella di proiettare nel 2019, a Torricella Peligna, in anteprima nazionale, il film francese Mon chien Stupide di Yvan Attal, tratto dal racconto lungo di John Fante Il mio cane Stupido, con la presenza del regista, dei produttori e dei figli di Fante.

A toccarmi profondamente è anche l’intensa amicizia che si è instaurata negli anni con i figli di John Fante, con Victoria ma anche con Jim e il compianto Dan. Iniziata intorno agli anni 2000, all’epoca della realizzazione del mio documentario su Fante, quest’amicizia si è certamente consolidata negli anni grazia al festival. Non c’è stata un’edizione a Torricella Peligna senza di loro. E se è vero che Dan era già stato in l’Abruzzo prima del festival, Victoria e Jim hanno conosciuto la terra dei loro avi partecipando alla nostra manifestazione. Questa loro continua frequentazione si è tradotta anche una ricerca delle radici. Una delle mie più grandi soddisfazioni è arrivata inaspettatamente da Jim Fante, il quale con grande generosità ha voluto inserirmi in un suo scritto sul padre tra le donne che hanno avuto un ruolo importante nella divulgazione della sua opera. Un’attestazione di stima mi ha ripagata di tutti i sacrifici fatti in questi anni. Perché bisogna dirlo, mettere in piedi una manifestazione del genere, di nicchia, in un piccolo comune, è di una difficoltà estrema. Ciò non vale solo per me che la dirigo ma anche per l’amministrazione comunale di Torricella Peligna che la organizza facendo sforzi titanici.

Personalmente, come nasce la sua passione per Fante, ed è mutata, si è approfondita o s’è attenuata, nel tempo?

La mia passione per Fante nasce da un fatto biografico. Ho iniziato a leggerlo perché aveva lo stesso cognome, poco diffuso, di mia nonna Dorina. Inizialmente cercavo in lui ciò che me lo accomunava, vale a dire l’esperienza di figlio di immigrato. Anch’io sono nata all’estero da genitori italiani. Mi sembrava che solo lui riuscisse a descrivere con così tanta autenticità uno stato d’animo che sentivo mio, l’essere in bilico, in bilico tra due culture e classi sociali. Poi, mi sono interessata maggiormente alla sua scrittura, al suo sapiente e moderno uso del materiale biografico nel romanzesco, alla complessità della sua ironia che fende l’autore dall’io narrante. Il suo è un linguaggio innovativo che di fatto ha segnato la narrativa americana del XX secolo. Adesso ne sono dentro fino al collo. Spero quanto prima di poter far confluire questa mia passione e le mie ricerche sull’autore in un saggio monografico tutto mio.

Fante è diventato il classico scrittore di culto. Da parte dei suoi ammiratori si respira quasi un’aria di devozione. Secondo lei, in questo “culto”, vi è qualcosa che va sfatato per non rischiare di diventare luogo comune?

Da un lato, sono contenta che John Fante sia diventato un autore di culto perché in qualche modo rappresenta il riscatto dopo i lunghissimi anni bui. Ricordo che Fante, prima della sua riscoperta avvenuta tra la fine degli anni Settanta e i primi degli anni Ottanta negli Stati Uniti grazie a Bukowski, era caduto nel dimenticatoio. Aveva pubblicato poche opere. Diverse sono uscite dopo, postume. Oggi è apprezzato in tutto il mondo. I suoi libri vendono abbastanza bene. Inoltre, questo fermento intorno alla sua opera ha spinto gli accademici a riconsiderare il suo ruolo nella letteratura americana del XX secolo.

Credo però che un’eccessiva venerazione a volte faccia perdere di vista alcuni aspetti della sua scrittura. Penso all’uso dell’autobiografismo. Si tende troppo spesso, a mio avviso, a sovrapporre il personaggio di Arturo Bandini alla figura di John Fante, come se fossero un’unica entità, a volte con risvolti imbarazzanti. Oltre a sminuire il lavoro stilistico di Fante, crea falsi miti. Non bisogna confondere l’autore con il personaggio, anche se è un io narrante. La sua opera, pur essendo alimentata dal suo vissuto, è pur sempre esplicitamente romanzesca. Fante dissemina nella sua opera indizi autobiografici ma non stabilisce mai un patto autobiografico con il lettore, tranne in Full of Life, dove il personaggio si chiama John Fante, ma sappiamo che è stato l’editore a volerlo.

Fante è forse,  attualmente, il più famoso scrittore italoamericano in Italia.  Cosa trova di essenzialmente italiano nella sua prosa e cosa di essenzialmente americano?

Di americano direi che ha quasi tutto, perché lui è uno scrittore nato e vissuto negli Stati Uniti, tanto che viene considerato il padre della letteratura losangelina. È uno dei primi romanzieri a esplorare la Los Angeles multietnica degli anni Trenta, con i suoi bassifondi popolati di immigrati, usando nei suoi scritti la lingua parlata di quei luoghi. Lo dice chiaramente anche il suo amico Carey McWilliams.

Tuttavia, la scelta di far confluire nella sua opera la sua esperienza, a volte dolorosa, di figlio di immigrati italiani, mettendo l’accento sulla famiglia italoamericana, può certamente essere considerato come il tratto distintivo italiano della sua prosa. In fondo lui guarda il mondo attraverso le lenti del transclasse, di chi passa da un’identità culturale e di classe all’altra. Noi italiani lo apprezziamo anche perché ciò che scrive sulla sua famiglia italoamericana ci tocca personalmente perché riguarda la nostra storia, quella della grande emigrazione. E nei suoi genitori a volte ritroviamo i nostri cari.

Il dolore di fondo che sentiamo risuonare nei suoi romanzi, unito al suo antidoto che è l’ironia, tenera e feroce allo stesso tempo, lo rende davvero unico nel panorama americano. Direi che chi considera la sua ironia vicina all’umorismo pirandelliano, come ha fatto lei nel suo bellissimo saggio, non sbaglia.

Per l’editore Carocci, è uscito da qualche mese Dalla parte di John Fante: scritti e testimonianze, curato da lei assieme a Toni Ricciardi. È l’ultimo di molti libri dedicati a Fante nel nostro Paese, segno distintivo della popolarità del Nostro. Cosa propone di nuovo e quale scopo si prefigge questo libro?

Con questo volume ho voluto innanzitutto raccogliere un materiale prezioso su Fante, fatto di interventi scritti e orali, testimonianze e suggestioni dei nostri numerosi ospiti durante i quindici anni di festival. Troviamo infatti nel volume testi di alcuni dei protagonisti del festival (non tutti purtroppo): i tre figli di Fante, Victoria, Jim e Dan, il cantautore Vinicio Capossela, gli scrittori Sandro Veronesi, Giancarlo De Cataldo, Gaetano Cappelli, Simona Baldelli, Alessio Romano, Marco Vichi, lo sceneggiatore e produttore americano Frank Spotnitz, del filosofo Gianni Vattimo, il compianto Francesco Durante, uno dei suoi più grandi conoscitori, a cui è tra l’altro dedicato il volume, gli studiosi Fred Gardaphé, Giuliana Muscio, Lia Giancristofaro, Antonio Buonanno. Tutti scritti che contribuiscono al dibattito internazionale sull’opera dello scrittore.

Dalla parte di John Fante è però anche una celebrazione dello scrittore, un invito alla lettura della sua opera grazie agli scritti di chi lo ha amato e ha divulgato la sua opera. Attraverso alcuni omaggi si capisce perché Fante sia tanto amato dagli artisti e sia diventato un autore di culto.

Un piccolo cambio di prospettiva su Fante c’è nel volume. Con Toni Ricciardi, che è uno storico delle migrazioni e co-curatore del volume, abbiamo deciso di considerare Fante uno scrittore italoamericano di terza generazione, anziché di seconda, come viene comunemente descritto, perché sua madre, Mary Capolungo, era nata negli Stati Uniti e suo padre Nick, pur essendo emigrato oltreoceano da adulto, aveva già negli Stati Uniti suo padre Giovanni, il nonno di John.

Lei ha anche diretto un documentario su Pascal D’Angelo. Quali sono le differenze rilevanti in stile e anima tra Fante e D’Angelo?

Pascal D’Angelo è, contrariamente a John Fante, uno scrittore italoamericano di prima generazione, emigrato negli Stati Uniti, nel 1910. D’Angelo poi scrive essenzialmente poesie, di stampo shelliniano, molto belle ed intense. Ha pubblicato in un secondo momento una commovente autobiografia dal titolo “Son of Italy” in cui racconta della sua storia di immigrato, di quando lavorava come manovale nei cantieri di costruzione delle ferrovie dell’East Coast e soprattutto di come è nata la sua passione per la scrittura. Quando emigra negli Stati Uniti è un adolescente poco scolarizzato che negli anni impara a scrivere in inglese appassionandosi alla parola tanto da iniziare a comporre poesie, tanto da vincere anche un concorso della prestigiosa rivista newyorchese “The Nation”. È un poeta straordinario che merita di essere maggiormente conosciuto. La differenza con John Fante sta nel fatto che nella scrittura di D’Angelo si percepisce lo sforzo della conquista della parola, che rende il suo linguaggio più naïf, nel senso più bello del termine, determinandone anche la sua forza. Hanno in comune tuttavia le origini abruzzesi, sempre esibite nelle loro opere, e la presenza del tema del razzismo etnico negli Stati Uniti.

(In copertina: illustrazione di Massimo Carulli)

(Le fotografie di Giovanna Di Lello sono di Piera Menichini e Silvia Mazzotta)

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