Libri, Storie

Tanti significati in un trattino

di ILARIA SERRA

Non si possono spiegare gli studi italoamericani senza partire dalla discussione sull’hyphen, il “trattino”, quel brevissimo tratto d’unione ma anche di separazione. C’è così tanto in quel minimo segno grafico che qualsiasi discorso sull’identità deve partire da lì oppure tornare lì. In inglese, il trattino viene usato nelle parole composte quando si tratta di un aggettivo. Per esempio, Italian-American Literature è scritta da Italian Americans. Ma non è così semplice.

Ai tempi dell’emigrazione di massa, dopo i primi anni del ventesimo secolo, il trattino era un segno di vergogna. Nell’epoca della teoria del “melting pot”, quel trattino significava l’impossibilità a sciogliersi, a melting, nel calderone dell’identità. Era l’osso di pollo che rifiutava di farsi brodo. Un disturbo, un’aberrazione. Il presidente Roosevelt lo condanna nel 1915, davanti a un’assemblea di italiani e irlandesi, membri dei Knights of Columbus, alla Carnagie Hall, senza mezzi termini: “Non c’è spazio in questa nazione, per gli Americani con il trattino”. Non intende gli americani che sono nati all’estero e sono stati naturalizzati, no, quelli sono “tra i migliori americani”. Intende quelli che non riescono a sciogliersi completamente: “un americano con il trattino, non è un americano per nulla”. Roosevelt teme che la sua nazione diventi un garbuglio di nazionalità in contrasto una con l’altra, di cittadini che sentono più affetto per la vecchia madre patria che per la madre adottiva. E conclude: “Non esiste un buon americano che abbia il trattino. L’unico buon americano è un americano e basta”.

È d’accordo il presidente Woodrow Wilson che, nel 1919, rincara: “Voglio dire e non posso dirlo abbastanza, che quasiasi persona porti un trattino porta un pugnale che è pronto ad affondare negli organi vitali di questa Repubblica non appena lo voglia”. Il trattino comincia a riempirsi di significati, e quest’ultimo “dagger”, pugnale, sembra riferirsi direttamente all’italoamericano. Anzi, è forse uno dei significati etimologici del soprannome derogatorio “dago” che viene assegnato agli emigranti italiani in quel periodo e che viene usato senza remore perfino negli intertitoli di un film muto (The Skyscrapers of New York del 1906).

Il discorso sul trattino viene ripreso da Daniel Aaron, critico scomparso nel 2016, che nel 1964 ne resuscita l’importanza e ne prevede la cancellazione totale. Anche per Aaron il trattino non è solo un’interpunzione, ma una metafora: il tentativo del nord americano di tenere il nuovo arrivato “a lunghezza di braccio”, un gesto di allontanamento ad arto esteso. Su una cosa si sbaglia però: scrive che esso scomparirà. Ritratta infatti la sua posizione vent’anni dopo, nel 1981: “la de-trattinizzazione” che aveva previsto è stata invece una “re-trattinizzazione”. In quei vent’anni sono passate le ventate dei diritti civili, che hanno tirato a lucidato quel trattino, rivendicando la diversità come una bandiera, non una vergogna.

Gli studi italoamericani si riappropriano del trattino quando lo studioso Anthony Tamburri vi dedica un piccolo ma citatissimo libriccino nel 1991, intitolato To Hyphenate or Not to Hyphenate (tradotto da Emanuele Pettener e pubblicato da MnM Edizioni nel 2018). Tamburri evidenzia che quel trattino è molto di più che una convenzione grafica: “Ci sono casi in cui l’uso o la regola grammaticale denotano un pregiudizio intrinseco, per quanto leggero”. Fatto sta che Tamburri propone una “manovra da prestigiatore” che non elimini il trattino, tutt’altro – la cosa non è possibile e nemmeno augurabile – ma lo inclini. Invece di un trattino (-), si usi una barra (/). La barretta può infatti avere significati sfumati: significa l’uno E l’altro, ma anche uno O l’altro. Allo stesso tempo accorcia la distanza della separazione e riavvicina i due termini.

Questo per quanto riguarda la critica. Una volta chiarita la valenza di questo piccolo segno, lo si vedrà gonfiare di valore ogni volta che si legga una pagina sull’identità italoamericana (e anche quasiasi altra identità, ovviamente, che sia fatta di almeno due componenti). Anzi, questo diventa il primo compito dei miei corsi di cultura italoamericana: una riflessione sul trattino su cui ognuno di noi si bilancia. È un collegamento o una divisione? È un luogo comodo o scomodo? Una scelta o un’imposizione? Una consolazione o una condanna?

Ci riflettono tanti scrittori italoamericani. Dorothy Calvetti Bryant si pone la domanda in un breve scritto intitolato “How Many Hyphens do you Need to Define an Italian-American Writer?” Gioca d’addizione e non riesce a trovare la fine alla successione dei trattini e delle sfaccettature identitarie che la compongono. Lo stesso fa Sandra Mortola Gilbert che, nell’articolo “Mysteries of the Hyphen”, cerca di svelare i misteri di un trattino da tempo negato. Solo recentemente, dice Mortola Gilbert, ha deciso di riprendersi il cognome da ragazza che la smaschera come italiana (aveva cercato di nasconderlo). Accettare il trattino diventa un atto d’orgoglio ma anche un’ammissione di complessità: questo trattino per lei è un “indovinello” la cui origine si perde in un passato remoto e in un luogo d’origine ormai dimenticato.

Risolve l’indovinello con un gesto gordiano il regista Martin Scorsese agli albori della carriera quando, ancora studente a NYU, gira il documentario Italianamerican (1974). Sembra così pacificarsi con l’idea, dicendo: sono un tutt’uno. Ditemi voi, dove inizia la mia americanità e dove finisce la mia italianità? Magari fosse così facile capirlo.

Concludo con la visione poetica del trattino. Una poesia di Wendell Aycock, già professore alla Texas Tech, che si pone in dialogo con Tamburri, sceglie un titolo che è un programma: “Hyphen-nation” osserva: “Sedersi in cima al trattino offre un meraviglioso panorama, ma nessuna direzione” (Sitting atop of the hyhen provides a marvellous view, but no direction). Ed è naturalmente a Joseph Tusiani che si deve il distico più citato degli studi italoamericani, dalla sua poesia “Song of the Bicentennial”: “Due lingue, due terre, forse due anime… / sono un uomo o due metà di uno?” (Two languages, two lands, perhaps two souls… / am I a man or two halves of one?).

Visibile o invisibile, cancellato o evidenziato, barra o trattino, quel segno resta un luogo incandescente all’interno di ogni italiano d’America.

(In copertina: illustrazione di Barbara Di Bernardo)

Potrebbe piacerti...

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *