Ritratti d'autore

Quel bohemian di John Fante

di MICHELA VALMORI


Questa sì che era vita: girare, fermarsi e poi proseguire, sempre seguendo il nastro bianco che si snodava lungo la costa sinuosa, liberandosi di ogni tensione, una sigaretta dopo l’altra, e cercando invano delle risposte nell’enigmatico cielo del deserto“.

John Fante, Chiedi alla polvere

Rispetto alla letteratura americana degli anni Trenta, Fante, come ha ribadito Barbara Lanati in John Fante, scrittore e sceneggiatore, non è soltanto fuori luogo, nel senso del suo trovarsi lontano dai maggiori esponenti dell’editoria newyorchese, bensì anche fuori tema e fuori tempo, perché, in un’epoca in cui “serviva la fiducia nell’uomo, […] egli metteva in scena la condizione in cui vivevano i suoi personaggi, le loro famiglie, i loro vicini”. Proprio l’inattualità d’allora e l’estraneità di Fante al pedagogismo del New Deal, rappresentano gli elementi di forza e freschezza delle sue opere che raccontano una vita ordinaria, media, dove i conflitti familiari e le perenni difficoltà economiche sono forieri di una miniera tragicomica senza fine. E così, quando comincia a scrivere, negli anni Trenta, i suoi lavori risultano del tutto “dissonanti” rispetto a quanto l’America produce, e appare, quindi, come afferma la Lanati, “stranger in a strange land”. D’altra parte, in un’America che cerca di ricomporre la sua immagine, con un’editoria molto attenta a sciogliere nodi dolorosi quali la discriminazione, il problema delle diverse etnie e la condizione dell’economia, adottare come “proprio” uno scrittore quale Fante, risulta piuttosto scomodo. In fondo, egli dimostra scarsa riconoscenza verso il Paese che ne aveva accolto il padre, insegnandogli come prima parola proprio una bestemmia. E ancora, come recensire positivamente un romanzo come Wait until Spring, Bandini, in cui un ragazzino assiste alla scena poco edificante del ritorno del padre dopo un periodo di inspiegata latitanza, in una casa in cui è accolto dallo stupore dei figli e dall’astio manifesto di Maria che gli graffia il volto e gli occhi a sangue, tanto che gli gocciola sulle scarpe nuove, regalo dell’americana Effie? E come giustificare quei dollari, guadagnati con il lavoro da Bandini, bruciati poi dalla moglie nonostante la povertà della famiglia, perché considerati, a ragione, “not fair enough”?

Più volte, nel corso dei suoi romanzi, Fante ha argomentato la propria poetica; quella di una letteratura che nasce dalla vita e che solo in un secondo momento si costituisce come avventura totalizzante. Per poter scrivere, deve aver vissuto un’esperienza significativa, instaurando una circolarità che Tondelli, nella prefazione alla traduzione italiana di Dreams from Bunker Hill (Sogni di Bunker Hill), tradotta da Francesco Durante per Einaudi, definisce vita-scrittura-vita; non è un caso, allora, se la sconfitta di Bandini, come individuo, si ha quando non gli è permesso, per un motivo o per l’altro, scrivere. A detta di Tondelli, questi sono i momenti della strada.

Ed è a proposito di questo, ovvero della poetica della strada, che diviene ragionevole il confronto tra Fante e Kerouac, stigmatizzando la loro come una sorta di migrant writing nella sua accezione più vasta e più totalizzante, nella quale la migrazione può essere anche solo interna alla scrittura che riesce a caratterizzare il mito della letteratura americana: quello della fuga. A chi si pone la domanda se tra Fante e Kerouac sia esistito un rapporto letterario fatto di apprezzamento e conoscenza, non c’è modo di fornire una risposta autorevole, ma si potrebbe lasciare intendere, con questa affermazione di Tondelli, che l’ipotesi non risulti affatto remota: “Soltanto una decina d’anni più tardi, un altro grande scrittore, anch’egli figlio di poveri immigrati, il canuck (nomignolo attribuito ai franco-canadesi) Jack Kerouac darà a questo persistente mito della letteratura americana, quello della fuga, la sistemazione definitiva, dedicando a quelle e altre strade le pagine più belle e più sofferte che un americano abbia dedicato al proprio Paese. Non so se “il Grande Jack” abbia mai letto Fante, né se Fante abbia apprezzato i beat, cioè i beati. Diceva Allen Ginsberg: “Kerouac ha cercato la santità nella scrittura”, Fante certamente no. Ma, con i suoi toni bassi, ha raccontato per primo l’impossibilità di questa santità.

“Vivere era già abbastanza difficile, ma morire era un compito eroico.”

John Fante, Chiedi alla polvere

La prospettiva di un Fante “beat”, o meglio, l’idea di uno scrittore che, pur appartenendo alla vicenda etnica e subalterna, possa aver partecipato, essere entrato a far parte e addirittura aver influenzato la scrittura della Beat Generation, è stata manifestata anche da Barry Miles, il biografo di Charles Bukowski. Egli intitola il terzo capitolo della biografia Charles Bukowski, “On the Road”, riecheggiando il romanzo beat di Kerouac, e afferma poi che Bukowski amava quello stile di vita dissoluto fatto di disinibizioni sessuali e alcool, al punto tale, scrive Miles, che si sentiva come uno scrittore bohemian, proprio come John Fante.

(Le illustrazioni sono di SIMONA DAMIANI)

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