Interviste

I pregiudizi sugli italoamericani persistono ancora: conversazione con Anthony Julian Tamburri

di EMANUELE PETTENER

Anthony Julian Tamburri è Dean del più importante centro di cultura italoamericana negli Stati Uniti, il John D. Calandra Italian American Institute di New York, e Distinguished Professor di Lingue e Letterature Europee. I suoi interessi spaziano dalla letteratura al cinema, dalla semiotica alle teoria dell’interpretazione; ha scritto centinaia di articoli e quattordici libri, diversi tradotti anche in italiano, fra i quali: Una semiotica della ri-lettura. Guido Gozzano, Aldo Palazzeschi, Italo Calvino (Cesati, 2003), Un biculturalismo negato. La letteratura “italiana” negli Stati Uniti (Cesati, 2018), Scrittori Italiano[-]Americani. Trattino sì trattino no (MnM Print, 2018). A breve la sua prossima pubblicazione: Signing Italian/American Cinema: A More Focused Look (Ovunque Siamo Press, 2021). Ha co-fondato e dirige a New York la casa editrice Bordighera Press, impegnata nella diffusione della letteratura italoamericana e nella traduzione di poesie e romanzi italiani; è Cavaliere dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana.

Professor Tamburri, forse ancora oggi dici italoamericano e pensi a una figura costruita secondo stereotipi radicati nel secolo scorso. Ma com’è l’italoamericano del 2020?

L’americano di origine italiana (ovvero, l’italoamericano) si trova indubbiamente in una situazione socio-economica migliore di quella dei suoi genitori e ancor più dei suoi nonni. L’americano italiano — termine che privilegio ad altri per evitare il prefisso “italo”, con o senza trattino — copre ruoli importantissimi, a livello nazionale e internazionale, da quasi un secolo se non oltre. Oggi troviamo Michael Pompeo nel ruolo di Ministro degli Affari Esteri, Nancy Pelosi Presidente della Camera, Samuel Alito fra i nove giudici della Corte Suprema. Grandi ditte di livello nazionale sono state fondate da americani italiani (ad esempio Planters Peanuts, Bank of America, Home Depot) e americani italiani sono al timone di società internazionali quale Eataly, amministrata negli Stati Uniti da Lidia Bastianich. Potrei menzionarne molti, in diversi settori, ma mi limito ad altri tre nomi del mondo politico: Leon Panetta, Geraldine Ferraro, e Rosa DeLauro.

Fotografia di Lisa Di Battista

Quali sono i pregiudizi ancora vivi, negli Stati Uniti e in Italia, nei confronti del mondo italoamericano?

I pregiudizi oggi persistono. Abbiamo osservato nel corso dei decenni una pletora di lamentele riguardo la rappresentazione degli italiani e degli americani italiani nei media. Lettere di protesta sono arrivate da ogni strato della popolazione italiano/americana. Organizzazioni grandi e piccole, nazionali e regionali, si sono impegnate a supportare tali critiche e moti di disapprovazione. Anch’io mi sono impegnato in queste proteste, soprattutto in occasione di un post sul blog del commentatore politico Michael Kinsley, nel 2009; di una pubblicità di MillerCoors LLC, sempre nel 2009; e di un’altra pubblicità sui tartufi realizzata da Eataly Chicago, nel 2017. Questi atti di protesta sono senz’alcun dubbio giusti e necessari, a mio avviso. Se non alziamo noi la voce, come potrebbero altrimenti gli americani non di origine italiana capire cosa ci offende? Tuttavia il semplice atto di protesta, o la ricezione di una lettera di scuse, se non l’annullamento di una pubblicità, non dovrebbero essere il traguardo finale.

Al contrario, dovrebbero essere il primo passo di uno sforzo integrale più concertato per contrastare questi stereotipi. Non si può parlare della rappresentazione degli americani italiani nei media, soprattutto in termini di stereotipi “negativi”, senza discutere anche i possibili rimedi a tali rappresentazioni e le responsabilità all’interno e tra gli stessi americani italiani. Evitando questo secondo passo, corriamo il rischio di cadere nella vecchia trappola della vittimizzazione: “Guai a noi” diventa un mantra che, detto a voce abbastanza alta, elimina ogni responsabilità del cui onere altrimenti dovremmo assumerci noi stessi.

Quali sono i passi successivi alla protesta pura e semplice?

Essenzialmente passi di tipo finanziario — borse di studio per l’università, diversi tipi di grant per scrittori e cineasti, supporto per simposi e pubblicazioni. Questi atti di natura filantropica costituiscono secondo me una specie di operazione in senso ampio che manca ancora nel 2020. E il fatto stesso che gli auto-proclamati leader della cosiddetta “comunità” italiano/americana non ci pensino affatto — occupandosi soltanto di feste e celebrazioni di un passato storico-culturale del quale sanno ben poco — è il non plus ultra di un processo di auto-distruzione che reca alla quasi totale cancellazione di futuro per la cultura che dichiarano di sostenere.

Parliamo di letteratura. Come possiamo identificare e descrivere la letteratura italoamericana contemporanea? In primo luogo, mi chiedo se gli scrittori definibili italoamericani siano necessariamente di lingua inglese viventi negli Stati Uniti, o si può essere scrittori italoamericani al di fuori degli Stati Uniti e in lingua italiana.

La sua domanda mi conduce a una discussione che porto avanti da più di trent’anni. Sostenevo, e asserisco tuttora, che chi scrive ed è di origine italiana, trovandosi nelle sue opere segni e referenti di italianità anche minimi, e al tempo stesso conducendo la sua vita quotidiana negli Stati Uniti — avendo contatti con altri cittadini del Paese ospitante — sia uno scrittore italiano/americano. E affermo che tale definizione va attribuita anche per chi scrive in una lingua non inglese. Perché è più di tutto l’ambiente quotidiano in cui si vive, la semiosfera, come si suol dire in semiotica, che costituisce una esistenza contaminata da ciò che sa contemporaneamente di americano, d’italiano, e, per l’appunto, di italiano/americano.

Chiudo qui con una provocazione per i nostri lettori italiani nel Bello Ovile, una riflessione sviluppata – e mi si perdoni l’autocitazione – nel mio saggio Un biculturalismo negato: anziché classificarlo come scrittore italiano/americano, forse dovremmo/potremmo identificare questo scrittore in lingua italiana, che vive tuttavia in una semiosfera non geograficamente italiana, come scrittore italiano.

Fotografia di Lisa Di Battista

Quali sono negli Stati Uniti gli autori la cui essenza di scrittura può definirsi italoamericana e vorrebbe veder tradotti e divulgati in Italia?

A parte gli scrittori ormai famosi quali Don DeLillo, David Baldacci, e Adriana Trigiani, sono in tanti gli autori che andrebbero tradotti. Tra quelli meno conosciuti, ci sono, ad esempio, Tina De Rosa e Tony Ardizzione, due romanzieri abilissimi con una narrativa modernista sia formalmente sia tematicamente nel primo caso, e più tradizionale come scrittura ma alquanto audace come temi nel secondo caso. Altri prosatori che godono di reputazione nazionale e internazionale sono Wally Lamb (dai cui romanzi hanno tratto anche dei film), Carol Maso, Rita Ciresi, e Frank Lentricchia.

Molti poeti, poi, meriterebbero d’andar tradotti. Da Elda Tanazzo a John Ciardi, per arrivare a Felix Stefanile, ce ne sono tanti della generazione dei figli di immigranti. Fra coloro invece della generazione post-bellica mi vengono in mente Sandra Gilbert, Daniela Gioseffi, Jay Parini, Diane Raptosh, Dana Gioia, e Pasquale Verdicchio.

Ma voglio chiudere questa nostra chiacchierata con un’altra sfida ai nostri amici lettori in Italia: scopriamo — ovvero riscopriamo — quegli scrittori di lingua italiana che vivono negli States e pubblicano con case editrici di prima categoria ma, ciò nonostante, vengono appartati, o così sembra, dall’establishment critico letterario italiano. Alcuni nomi che mi vengono in mente sono Luigi Ballerini, Luigi Fontanella, e Tiziana Rinaldi Castro. E la morale della favola, quale sarebbe? Chi non vive sul suolo italiano, anche se scrive nella lingua di Dante, non può in alcun modo essere considerato scrittore italiano? Argomento, propongo, da approfondire in un’altra sede…

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