Interviste

Dalla direzione opposta: una conversazione con Charles Cantalupo

di ROSA AMATULLI

L’opera di Charles Cantalupo ha ricevuto l’appoggio delle Ford Foundation, della Rockefeller Foundation e della World Bank. È autore di quattro libri di traduzione di poesia eritrea, di quattro volumi di critica letteraria, tra cui un libro su Thomas Hobbes, e uno su Ngũgĩ wa Thiong’o e un’autobiografia, Joining Africa – from Anthills to Asmara. I suoi due libri più recenti includono una collezione di saggi, Non-Native Speaker, e una raccolta di poesie The Woodstock Sandal and Further Steps. Professore distinto di Inglese, Letterature Comparate e Studi Africani alla Penn State University, Cantalupo è co-autore della storica Dichiarazione di Asmara sulle Lingue e Letterature Africane, ratificata alla conferenza e festival “Against All Odds,” da lui presieduta ad Asmara, Eritrea, nel 2000. Al momento Charles Cantalupo è impegnato a scrivere un libro di poesia, An Eritread, ispirato dalla sua co-traduzione di un libro di racconti delle atrocità della rivoluzione in Eritrea.

R. Amatulli: Caro Professor Cantalupo, grazie infinite per aver accettato questa mia intervista per “Strade Dorate,” un progetto impegnato a promuovere, in Italia, la produzione artistica e culturale di autori italoamericani residenti negli Stati Uniti. È per me grande onore parlare con Lei delle sue radici, e del suo lavoro. Visto che l’obbiettivo di questa intervista è di scoprire autori italoamericani, vorrei chiederle innanzitutto delle sue origini italoamericane, e del suo rapporto con l’Italia e la cultura italiana.

C. Cantalupo: Sono felice di parlare con Lei. Raramente mi viene chiesto di parlare della mia scrittura in rapporto alle mie origini etniche, italiane. Mio nonno emigrò in America da Altomonte, nel Sud Italia. Partì da Napoli sulla nave “Scotia,” arrivò ad Ellis Island il 15 giugno 1894, e sposò mia nonna nella città di New York. Mio nonno era barbiere e musicista, e con mia nonna si stabilirono a Newark, New Jersey, dove ebbero una grande famiglia. Due dei loro figli divennero avvocati. Mio padre, Charles Cantalupo Jr. (io sono il terzo) si integrò bene nella cultura americana, anche se i suoi genitori parlavano italiano, mangiavano cibo italiano, e vivevano in un quartiere italiano. Io non iniziai a nutrire forte entusiasmo per la cultura italiana fino a quando non andai in Italia nella primavera del 1972, da studente universitario della University of Canterbury. Tanto fui preso da quella esperienza, che convinsi mio padre a bere di nuovo vino italiano, invece di scotch, e a mia madre di cucinare con olio di oliva, invece di olio di arachidi. Inoltre, insistetti che venissero ad incontrarmi a Roma. Questo fu il primo viaggio di mio padre in Italia, e ne fu molto contento.

Durante i quindici anni successivi continuai a studiare lingua e cultura italiana. Ritornai a Roma frequentemente e divenni ossessionato con le culture e letterature Italiane ed Europe. Ovviamente la letteratura americana è eccezionale, e io non sono altro che uno studioso e poeta americano, ma non mi sento particolarmente vicino alla letteratura tradizionale americana; eccetto per Edgar Allan Poe ed alcuni poeti americani del ventesimo secolo, che furono anche miei professori. Ma la mia prima visita nella Firenze rinascimentale, quando vidi il monumento di Dante fuori la Basilica di Santa Croce, e poi recentemente la visita ad Arezzo per vedere quello di Petrarca, mi hanno emozionato in modo particolare. Le loro opere sono fondamentali per me, e la loro valorizzazione e promozione del vernacolo è importantissima per la mia ricerca e i miei scritti sulla letteratura africana, in lingue africane.

R. Amatulli: Lei è un professore universitario ben affermato, un poeta, traduttore e studioso nella letteratura e cultura africana ma è anche un italoamericano. Ha mai incontrato difficoltà a causa delle sue radici, e cosa significa per Lei essere un “italoamericano”?

C. Cantalupo: No, io non ho mai dovuto affrontare troppe inconvenienze, e non gli do peso. Ovviamente ogni tanto alcuni scherzano sul mio cognome, Cantalupo, ma questo perché non sanno che un “Cantalupo” è un Singing Wolf [un Lupo che Canta]. Scherzi a parte, anche il mio lavoro sulla letteratura africana ogni tanto provoca commenti a proposito del fatto che io non sia africano e ci si chiede se io sia in grado di fare questo lavoro visto che non sono africano. Io non do molto peso a queste cose. Immagina se qualcuno dovesse contestare Yo-Yo Ma per il suo nome e la sua etnicità, visto che suona Bach. In ogni caso, io sono nato e cresciuto nel New Jersey, dove la maggior parte della gente viene da posti diversi del mondo, dove essere immigrante, e/o di prima e seconda generazione americana, è la norma. Mio padre è di origini italiane, mia madre di origini ucraine. Mia moglie è metà siciliana, metà ucraina. Noi scherziamo sempre sul fatto che le nostre origini siano tanto simili. Stavamo forse cercando una purità etnica, l’uno nell’altro? Solo dopo che ci siamo conosciuti e ci siamo innamorati abbiamo capito che le nostre origini sono simili. È vero, io sono un italoamericano, però io sono innanzitutto un americano. Io amo la cultura americana e non potrei vivere in nessun altro posto, anche se mi sento parte di un contesto culturale molto più vasto, come si può vedere da quello che scrivo.

R. Amatulli: Lei ha origini multiculturali. Visto che parlare di italoamericani significa parlare di migranti italiani, la cui identità viene influenzata dalla cultura americana, potrebbe spiegare cosa significa “identità’” per Lei?

C. Cantalupo: Per me “identità” è il prodotto di una varietà di punti insieme e fluidi, e non di un solo punto fisso. Entrambi i miei nonni, materni e paterni parlavano poco inglese. Io ho preferito, e coltivato, l’Italiano, sia nelle maniere, che nella cultura. Questa è stata una mia scelta. Potevo scegliere l’altra mia cultura, quella ucraina, ma ho preferito quella italiana. Io sono letteralmente (e geneticamente), tanto italiano quanto ucraino. Perché ho scelto di identificarmi italiano e non ucraino? I motivi sono tanti. Forse perché identificandomi italiano tramite il cognome di mio padre, riuscivo a dare più visibilità alla cultura italiana—dall’arte alla letteratura, e alla gastronomia—invece di quella ucraina, sia in America, sia in Europa. Vorrei sottolineare che scegliere la propria identità non è strano in America. Anche il nostro presidente precedente, Barack Obama, l’ha fatto: figlio di matrimonio bi-razziale, ha scelto di identificarsi come nero, anche se fare distinzioni razziali, invece di etniche, crea più complicazioni in America. Io incontro gente di ogni sfera sociale che si identifica più con un lato che con l’altro lato delle proprie origini etniche. L’identità potrebbe essere considerata come una frazione, un numeratore, con la nazionalità americana come denominatore. Tuttavia, se una famiglia si trova in America da tante generazioni, il nominatore diventa sempre più piccolo.

A partire dalla metà degli anni Ottanta, io ho gravitato verso l’Africa, maggiormente il Corno d’Africa. Sarà un cliché dire che tutti gli esseri umani si sono evoluti dalla valle del Rift nell’Africa dell’Est, milioni di anni fa, ma negli anni mi sono affezionato molto alla gente e le culture del Corno. Nel mio nuovo libro, The Woodstock Sandal and Further Steps, l’ultima poesia, “Minor Origins,” tratta appunto di questo, evolversi tra le rovine del Mar Rosso, dell’antica e multiculturale città di Adulis. La poesia comincia così, “Non DNA o i genitori, genitori dei genitori—quel tipo di stirpe. / Intendo dire la mente –quindi “minore” —Io posso accettare come mia.” Mio nonno lasciò Altomonte e scelse di immigrare verso l’Ovest. Meno di un secolo dopo io andai verso Est, non per bisogni materiali, bensì culturali. Tuttavia, seguii un’ondata di immigrazione dei tempi di mio nonno, quando gli Italiani anziché andare in America, andavano in Africa: Libia, Etiopia ed Eritrea. Quegli immigranti italiani andarono in Africa, mio nonno andò in America, ed io andai in Africa. Molta gente sceglie di emigrare, e come ben sappiamo, ora più che mai, popoli interi si spostano in tutto il mondo. Insomma, quello che sto cercando di dire è che dovremmo prendere in considerazione la natura e l’effetto di queste scelte, e che sono un’immensa risorsa di conoscenza. Consideriamo per un attimo la bellissima frase, “tutte le strade portano a Roma.” Ma pensiamo anche a tutte le genti, di culture diverse, che seguirono quelle strade per raggiungere Roma, e che poi le ripercorsero per andare via da Roma. Questa città è stata un centro, ma anche un incrocio di vie. Basti pensare alla sua immensa eredità culturale e come si è diffusa nel mondo: nelle arti, nella religione, in filosofia, storia, e molto altro. Tuttavia, un’eredità tradotta tante volte e in tante lingue diverse. Mi piacerebbe conoscere la parola giusta per quel tipo di identità.

R. Amatulli: L’identità è un concetto veramente molto complesso. Grazie infinite per le sue osservazioni tanto ponderate. Ora le chiedo il suo libro, Joining Africa [Unirsi all’Africa], narra la storia di come Lei abbia cominciato a interessarsi di Africa, e come sia diventato la voce pubblica della poesia d’Eritrea. Cosa l’ha spinta a coltivare la sua infinita passione per un luogo così complesso?

C. Cantalupo: In molti dei mei lavori mi sono occupato del percorso dell’apprendimento, o della conoscenza: i miei errori, la mia ignoranza, quello che non sapevo, e poi l’esperienza di diventare più informato, più esperto. Ho visitato l’Europa per la prima volta nel 1972. La sua bellezza e cultura mi hanno immediatamente travolto e ossessionato. Ho provato anche immenso piacere e gioia, proprio come Edward Casaubon, uno dei personaggi nel romanzo di George Eliot, Middlemarch, uomo dedito all’apprendimento di tutte le conoscenze. Durante i successivi quindici anni, io mi sono addormentato e mi sono svegliato pensando alla cultura europea, e ho letto e scritto cultura europea.

Casaubon, ovviamente, non riuscì nella sua missione. Io invece andai in Egitto e mi resi conto che i miei studi, i miei scritti, i miei viaggi, la mia conoscenza, e il mio insegnamento non mi avevano preparato abbastanza per l’immensa bellezza, cultura e arte che vi trovai lì. Ciò nonostante, mentre da un lato ne ero profondamente meravigliato, dall’altro mi sentivo personalmente ed intellettualmente vulnerabile. Pensai: perché continuare il mio pellegrinaggio intellettuale in Europa senza includere l’Africa? Così cominciai ad esplorare alcuni paesi africani. Più studiavo, più facevo ricerca, più scrivevo sulla cultura africana, e più mi rendevo conto che vi erano numerose correnti culturali che attraversavano l’America, l’Europa e l’Africa. La stessa dinamica vale quando si studia sull’America. Studiare America vuol dire capire, prima di tutto, i rapporti che la legano all’Europa, all’Africa e al resto del mondo.

Quando mi resi conto che conoscenza e cultura sono fatti di rapporti e legami tra diversi pezzi e posti di conoscenza, capii anche che la mia conoscenza delle culture europee potevano collegarsi anche all’Africa. Ecco come ebbe inizio il mio percorso intellettuale Americano-Europeo-Africano. Un altro modo di interpretare questo procedimento è che rovescia il viaggio intellettuale di San Agostino. Lui andò dall’Africa a Roma. “Veni Karthaginem,” scrisse nelle sue Confessioni. Il mio viaggio, invece, fu da Roma all’Africa. “Io venni a Cartagine da altre direzioni, / Da Roma andai alla Roma di Roma,” come ho scritto in una delle mie poesie “Newark, Cairo, Dakar, Nairobi, Asmara, Home” (Joining Africa 261).

R. Amatulli: La frase “La Roma di Roma” appare nel suo libro, Joining Africa, quando descrive l’arte e l’architettura italiana in Eritrea. Lei scrive, “La Roma di Roma—sì—un continuum culturale tra l’Europa e l’Africa: ma non una cultura superiore, in grado di sostituire un’altra”. Potrebbe, per cortesia, spiegare, cosa vuol dire con queste parole?

C. Cantalupo: Dopo quanto le ho già detto sul mio viaggio -pellegrinaggio o transizione- culturale, dall’America all’Europa, all’Africa, tale dichiarazione potrebbe essere prevedibile. Nel contesto della mia autobiografia, tale idea appare quando descrivo la mia prima visita ad Asmara, Eritrea, nel 1995. Dichiarata patrimonio mondiale dall’UNESCO, nel 2017, Asmara è ricca di architetture Moderniste Italiane, in forma di teatri, chiese, palazzi governativi, alberghi, negozi, appartamenti, stazioni di benzina, e molto altro. Inoltre, nella città vi sono molti quartieri diversi tra loro, e pieni di vita. La combinazione, la “mista,” è stupenda; è “a pennello” nonostante fu vittima di innegabili brutalità del colonialismo italiano. Malgrado tutte le segnaletiche e le chiacchierate in italiano, le Seicento originali della Fiat parcheggiate in strada, le campane suonanti della cattedrale francescana, le botteghe dei barbieri come quella di mio nonno, un eritreo in un alimentare, che somigliava mio zio paterno, e che mi preparava un panino con provolone e prosciutto, io sapevo di essere in Africa, nella sua più giovane e luminosa nazione. La maggior parte delle insegne e delle conversazioni erano in tigrino, e perfino in Ge’ez. Tante pareti erano ancora bucherellate dagli spari del conflitto armato durante la guerra di indipendenza dell’Eritrea, durata trent’anni, e terminata solo alcuni anni fa. I primi giorni li trascorsi curiosando nelle librerie piene di libri africani, parlando con gli autori che stavano scrivendo la nuova costituzione eritrea, e visitando il Cimitero dei Martiri, e Tsetserat, l’enorme cisterna e camposanto delle armature dove le armi di entrambi i lati della Guerra Fredda, giacciono arrugginiti e in oblio.

A livello personale, tutti i viaggi che ho fatto in Europa per anni, si concludevano sempre a Roma; ora invece si concludono ad Asmara. Questi viaggi hanno avuto un significato spirituale per me. Quell’anno arrivai in Eritrea venendo da Israele, dove ci ero andato per partecipare ad una conferenza sulle lingue africane “Beyond the Land of Kush.” In quel periodo leggevo il Kebra Nagast, un testo etiope ortodosso, che racconta come Menelik, il figlio della Regina Saba e Re Salomone, trasportò l’Arca dell’Alleanza da Gerusalemme ad Aksum. Durante il colonialismo italiano, Asmara veniva chiamata “Piccola Roma.” Ma oltre alla sua dimensione geografica, io non trovai niente di “piccolo” in Asmara. Al contrario, io mi trovavo in un luogo dove tutti gli dèi del Mar Rosso, entro circa 100 chilometri di distanza –Ebraismo, Cristianità, Islam, Zoroastrismo, ed altri—erano emersi e avevano camminato per la prima volta, e dove le loro idee ed immagini in seguito si diffusero fino ad arrivare all’Europa, all’America, e, ovviamente, in tutto il mondo. Quindi, sì, per me Asmara fu come una sorta di Roma di Roma.

R. Amatulli: Lei ha un autore italiano preferito? Chi è, e cosa pensa del suo lavoro?

C. Cantalupo: Oh, certamente! Dante è di gran lunga il mio autore preferito. Leggere Dante mi ha cambiato la vita. Quando avevo diciassette anni, cominciai i miei studi universitari presso la Washington University, in St. Louis, Missouri. In quegli anni protestammo contro la guerra in Vietnam, e contro il Presidente Lyndon Johnson. Sfidammo e perdemmo la nostra religione, e sperimentammo droghe psichedeliche. Non c’era niente che non sfidassimo in quel periodo. Poi lessi Dante, che mi sconvolse come non era mai successo prima. Non solo lui mise in discussione, lui criticò e si oppose a qualsiasi istituzione culturale, tradizione e convenzione del tempo; lui li sostenne anche. Nessun pilastro culturale rimase inosservato; lui rinforzò ogni pilastro culturale. E lui stesso divenne un pilastro. Non solo mise tutti quelli che conoscesse in Inferno, lo disse in rima, in terza rima. Wow!

Nel corso degli anni ho scritto molto in terza rima, in inglese ovviamente: ad esempio, “Columba, the Dove,” pubblicata nel mio libro di poesia, Light the Lights (2004). La forma poetica di Dante mi sembrò il modo giusto per una poesia lunga che commemorava il 500esimo anniversario, nel 1992, dell’arrivo di Cristoforo Colombo in America; ed emotivamente la morte di mio padre nel 1993. Due italiani, due viaggi, due finali. L’esploratore genovese oltre a subire la fine della sua vita, subì anche la fine della sua popolarità da eroe, in quanto inteso come progenitore della storia brutale del colonialismo europeo. Per poter scrivere questo poema, dovetti visitare dei luoghi nei Caraibi e nell’Africa dell’Ovest come, ad esempio, la parte ovest del Porto Rico, e l’isola Gorée nel Senegal, conosciuti come luoghi di terrore e sfruttamento del colonialismo europeo. Nel poema mi concentrai su come la vita progredì lì molti secoli dopo, e cercai di dire che la “colomba,” simbolo di pace e riconciliazione, potrebbe un giorno prevalere.

Dante fu il primo poeta ad ispirarmi a scrivere in forma poetica che fosse in parte epica. Leggendo il suo capolavoro scoprii un mondo di arte, poesia, politica, e più di quanto avessi mai conosciuto prima. A dir il vero sto ancora cercando di sviluppare la sua impronta poetica nel mio lavoro. Ciò nonostante, Dante non è stato l’inizio del mio percorso culturale. Sarà il mio libro più recente, The Woodstock Sandal and Further Steps, a rivelarlo. Tuttavia, lui è stato per me ciò che Virgilio fu per lui.

R. Amatulli: Lei ha scritto quattro libri di poesia e ha tradotto quattro libri di poesia eritrea. Che cosa è la poesia per lei, e perché è importante per l’anima?

C. Cantalupo: Ho quasi sperato che non mi facesse questa domanda perché la poesia è multiforme, anche se deriva dallo stesso periodo storico. Spesso io ritorno alla frase di William Wordsworth, che dice, “La poesia è il traboccare spontaneo di forti sentimenti: e nasce da emozioni rammentate in tranquillità.” Questa frase si può interpretare in diversi modi, come si fa con la grande poesia. Per me una bella poesia consiste di forme distinte di lingua, significato, emozioni, musica, e memoria, al contempo. La “performance” è anche importante per la poesia in quanto la collega alle sue origini orali.

Quando avevo tredici anni scrissi la mia prima poesia, una canzone protesta contro la guerra del Vietnam, che ricevette popolarità. Recitare questa poesia e vedere la reazione degli spettatori fu per me esperienza unica e indimenticabile, che mi ha ispirato a continuare a scrivere. Visto che la gente mi diceva che il mio canto aveva un significato speciale per loro, come potevo smettere di scrivere io? Io non ero un giovane studioso. Io ero un musicista interessato a suonare la mia chitarra a dodici corde in un complesso di rock and roll. Questo coincide col mio modo vedere la poesia: una lingua musicalmente più intensa. Questo è quanto avvenne cronologicamente prima che io leggessi Dante, e ciò che scrivo, come ho già detto nella mia poesia, “The Woodstock Sandal,” che si trova nel libro dallo stesso titolo. Quella poesia, inoltre, è più nella forma narrata ed epica, che lirica.

Attualmente sto lavorando su un libro di poesie fondate sui racconti atroci di guerra in Eritrea. Ho aiutato a tradurre questi racconti, originalmente scritti in prosa narrativa in tigrino, basati su testimonianze oculari. Tradurle è stato lavoro difficile e deprimente in quanto i racconti erano brutali e sconvolgenti. Quando ho terminato il progetto ho deciso di riscriverli come poemi epici, nel senso che ho usato l’esametro dattilico di Omero, del Latino, e di Virgilio, con un lieve adattamento americano. Mentre scrivevo queste poesie, mi sono reso conto che ero in dialogo con la lunga tradizione di tutte le letterature del mondo, della letteratura orale, o oralità, anche se quella non era mia intenzione e non me ne sono accorto quando ho iniziato. Semplicemente è successo. L’impeto di riscrivere le traduzioni in forma poetica è dovuto dal fatto che i racconti suscitavano in me emozioni talmente forti e sconvolgenti che non mi davo pace a meno che le scrivessi in poesia.

Se questo tipo di poesia non è dialogo con l’anima, non so cosa sia. Forse questo non sembra molto teologico, e forse a questo punto dovrei confessare che quando le teorie francesi di Derrida e Foucault fecero furore negli anni 1980 e 90, io mi immergevo in teologia: Agostino, Bernardo di Chiaravalle, e moderni come Teilhard de Chardin e Karl Rahner.

Nondimeno scrivere poesia è tanto un’esperienza emotiva e fenomenologica, quanto estetica e intellettuale esattamente grazie al suo ritmo e musicalità: una conditio sine qua non della poesia che io ammiro di più. Nella poesia americana, Edgar Allan Poe è il più grande, e forse unico, esponente di questo punto di vista. Si potrebbe considerare la musica come un ipnotico con effetto sulla mente e sul corpo, che ci fa ridere o piangere, e che cambia in nostro umore. Un esempio basilare di tutto ciò è quando si guarda un video di ballo con la musica spenta. Cosa fa la gente? Accompagna la musica –qualsiasi tipo di musica— e la sua lingua, anche se spesso non si capiscono le parole della canzone, come nel caso dell’opera o musica religiosa. Nonostante non si capisca la lingua della canzone, la musica riesce a dominare il nostro animo. Per concludere, capire le forme distinte della lingua poetica, il suo significato, le emozioni, la musicalità e i ricordi, sono al contempo il motivo per cui io scrivo e leggo poesia.

R. Amatulli: Grazie mille. Questa è stata molto più di una conversazione; questa è stata una lezione sull’identità, sulle culture di Roma e Africa, sulla storia e sulla conoscenza. È stato veramente interessante e affascinante e il suo lavoro è davvero coinvolgente. Le faccio i miei più sinceri auguri sul suo lavoro attuale e sui suoi progetti futuri.

C. Cantalupo: Grazie infinite.

(In copertina: illustrazione di Massimo Carulli)

Puoi leggere l’articolo in inglese cliccando qui.

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