Interviste

Il complicato riconoscimento critico della letteratura italoamericana: intervista a Fred Gardaphé

di MICHELA VALMORI

Quando chiesi a un professore se pensava che avremmo potuto studiare gli scrittori italoamericani nel modo in cui stavamo iniziando a studiare gli afroamericani, i latinoamericani, gli asiatici americani e altri gruppi, mi rispose con una risata e alcune lapidarie parole: “No. Loro sono bianchi”.  Potevamo anche essere bianchi ai suoi occhi, ma la nostra produzione letteraria non era evidentemente abbastanza “bianca” da essere inclusa nei suoi corsi”.

Caro Professor Fred Gardaphé, la ringrazio per aver accettato di essere intervistato da me per “Strade dorate”, un Progetto ambizioso concepito da qualche mese che si occupa della divulgazione della letteratura e della cultura italoamericana in Italia. Ecco perché le ho scritto, ci è parso doveroso dare inizio alla nostra impresa letteraria e culturale, gettando premesse e fondamenta, e mettendo in evidenza alcune delle voci più autorevoli in materia. Con lei mi piacerebbe parlare del difficile riconoscimento della letteratura italoamericana sia negli Stati Uniti che in Italia. Iniziamo …

La letteratura italoamericana, negli Stati Uniti, ha dovuto attraversare un percorso impervio per ritrovarsi, alla fine, criticamente riconosciuta dagli studiosi. Quale livello di accoglienza e di interesse, non solo tra gli accademici, è oggi arrivata a ricevere?

C’è voluto un po’ di tempo perché la letteratura italoamericana fosse identificata come tale. Questo è in parte dovuto al tardivo ingresso degli italoamericani nella schiera di critici e studiosi che hanno iniziato a prestarvi attenzione. Fa parte di quello che io chiamo “Indigenuity”1 (indigenosità), una parola che mi è venuta in mente ascoltando una conversazione tra gli scrittori LatinX Cherrie Moraga, Celia Herrera Rodriguez e Luis Rodriguez in una recente conversazione online nella serie “In Good Company: The Latinx Public Voice”. I tre scrittori stavano discutendo sull’importanza di riconnettersi alle proprie culture indigene come mezzo per sviluppare risposte al vivere nel mondo di oggi. Ascoltare il loro ricco scambio mi ha spinto a pubblicare quanto segue: l’indigenosità è creata da ogni essere umano che si riconnette alle energie che sono state perse attraverso il processo di acculturazione verso ciò che l’America rappresentava per quegli stessi indigeni provenienti da altri luoghi e venuti qui come immigrati. Nel profondo siamo tutti indigeni di qualche luogo. Quello è il luogo a cui tutti dobbiamo tornare per connetterci gli uni agli altri come esseri umani, riuscendo così ad evitare di combattere le categorie identitarie che le potenze materiali hanno escogitato per dividerci. Queste sono le verità che dobbiamo riportare ai nostri popoli d’origine come messaggi di speranza. Bravi Cherrie, Luis e Celia. Una ricerca condotta su Internet per reperire il significato della parola “Indigenuity” ne ha rivelato il seguente uso precedente nel lavoro dell’autore e attivista Daniel R. Wildcat, un membro Yuchi della Muscogee Nation of Oklahoma e autore di Red Alert: Saving the Planet with Indigenous Knowledge.

L’indigenosità è l’applicazione della profonda saggezza dei popoli indigeni, per esempio gli indiani d’America e i nativi dell’Alaska, per risolvere i problemi pratici che affrontiamo oggi. Essa è il risultato della lunga trasmissione intergenerazionale di conoscenze esperienziali da parte di un popolo, accumulate nel corso di millenni, derivante dall’attenzione all’inestricabile nesso simbiotico tra le culture umane e gli ecosistemi/ambienti che hanno conferito ai popoli tribali la loro cultura e identità. Come tale l’indigenosità è una co-creazione di esseri umani e piante, animali e altre caratteristiche naturali del mondo.

Il più delle volte è necessario il lavoro di critici indigeni per attirare l’attenzione sulla scrittura e l’arte prodotte dai membri di una cultura che non fanno naturalmente parte della cultura dominante di una società. Gramsci alludeva a questo quando ha introdotto l’idea “dell’intellettuale organico”, ed è qualcosa che ho preso a cuore quando ho iniziato la mia incursione nello studio dei contributi italoamericani alla letteratura americana. Questo è stato certamente il caso degli afroamericani, latinoamericani, ebrei americani e altri studiosi che hanno attentato al canone della letteratura americana, stabilito e studiato dalle prime istituzioni accademiche, e che ancora oggi lo mettono a dura prova. Quello che stavano facendo alla cultura era quello che Wildcat dice che deve essere fatto nei nostri approcci alla protezione del nostro ecosistema. Grazie al lavoro di Olga Peragallo, Rose Basile Green e Helen Barolini, la gente ha cominciato a prestare attenzione alla letteratura italoamericana, qualcosa a cui non avrei mai pensato durante la mia formazione precedente, quando studiavo letteratura afroamericana con Finley Campbell all’Università del Wisconsin, Madison, che per primo mi ha ispirato a dare inizio alla mia ricerca di scrittori italoamericani pronunciando alcune parole, per me, ad alto impatto: “Anche i bianchi hanno radici!” Qualche anno dopo, quando chiesi a un professore se pensava che avremmo potuto studiare gli scrittori italoamericani nel modo in cui stavamo iniziando a studiare gli afroamericani, i latinoamericani, gli asiatici americani e altri gruppi, mi rispose con una risata e alcune lapidarie parole: “No. Loro sono bianchi”. Potevamo anche essere bianchi ai suoi occhi, ma la nostra produzione letteraria non era evidentemente abbastanza “bianca” da essere inclusa nei suoi corsi. Questa serie di eventi mi ha spinto ad andare avanti nella mia ricerca sulla letteratura italoamericana, e ad unirmi al lavoro di altri giovani studiosi (all’epoca) Mary Jo Bona, Anthony Julian Tamburri e Paolo Giordano, che attraverso la nostra versione intrinseca di indigenosità cercavano la conoscenza dei nostri antenati.

Nel 1949 Olga Peragallo fu la prima studiosa ad avvicinarsi criticamente alla letteratura italoamericana. Prezzolini ha definito il suo lavoro come fondamentale. Perché, secondo lei, ha ricevuto così poca considerazione? Aveva ragione Barolini nel suo Prologo (The Dream Book)nel sottolineare la subalternità della scrittura femminile?

Peragallo, agendo su quella nozione di indigenosità iniziò il difficile e importante lavoro di trovare i testi che sarebbero diventati la base per rivendicare la presenza di una letteratura italoamericana. Morì giovane, e poco o nulla si sa della sua vita e del suo lavoro; la sua eredità risiede nella pubblicazione, nel 1949, di Italian American Authors and Their Contributions to American Literature (New York: S.F. Vanni) Vanni era una libreria e anche un editore che un tempo si trovava a pochi metri dall’attuale Casa Zarilli Marimò della New York University. Quel libro non è mai stato ripubblicato e quindi, se non fossi un topo di biblioteca, non lo avrei mai trovato. Ho dovuto fotocopiarlo (ora è disponibile attraverso una ristampa del 2012), così come lo è lo studio successivo di Rose Basile Green. Il lavoro di Peragallo ha dato a tutti noi un punto di partenza da cui procedere, con il lavoro necessario per unire la sfida multiculturale al canone tradizionale della letteratura americana, così come si studia durante il percorso scolastico e accademico.

Se dovesse tenere un corso sulla letteratura italoamericana contemporanea in Italia, a quali tre autori darebbe la priorità e perché?

È da un po’ che insegno letteratura italoamericana in Italia, e la risposta a questa domanda dipende molto da dove in Italia io debba insegnare. Per esempio, quando sono stato invitato a insegnare in Sicilia, ho usato autori siculo-americani Tony Ardizzone, Ben Morreale, Jerre Mangione, Gioia Timpanelli. Ma quelli con i quali lavoro regolarmente nei miei corsi sono Tony Ardizzone, Mary Caponegro, Tina DeRosa, Don DeLillo, Pietro di Donato, Rachel Guido deVries.

Quali pensa possano essere le ragioni dello scarso interesse accademico per gli studi italoamericani in Italia?

Per molto tempo, l’esperienza degli immigrati italiani in America non è stata considerata americana, e quindi non era studiata da quegli studiosi italiani che erano venuti a studiare la letteratura americana negli Stati Uniti. Come me, la loro vicinanza emotiva a quell’esperienza li tratteneva dal vederla come qualcosa che potesse essere esplorata in contesti educativi formali. Molti avevano parenti emigrati dall’Italia, e l’idea stessa di studiare qualcosa di personale in un contesto pubblico, almeno allora, non era qualcosa da poter essere fatto in ambito scolastico. Quando il movimento multiculturale cominciò a prendere piede e a guadagnare potere nell’accademia statunitense, l’attenzione andò ai gruppi etnici e razziali che erano coinvolti politicamente: l’azione politica è necessaria per poter suscitare l’attenzione culturale negli Stati Uniti, specialmente in un’economia basata sul capitalismo. Trasformare le rivoluzioni in tendenze, le rende vendibili e aumenta le opportunità per gli istigatori di vendere; trasformare precarie canzoni rap in bestseller è semplicemente il modo del capitalismo di disinnescare le sfide al potere sociale e politico. Se il mainstream, sia nelle arene commerciali che in quelle educative, non sanziona l’attenzione a qualcosa, questo non viene preso abbastanza sul serio da premiare coloro che vi prestano attenzione. È semplice.

Mi è stato detto, da intellettuali ormai istituzionalizzati, che la letteratura italo-americana non era un soggetto appropriato per uno studio accademico serio: non c’erano abbastanza studi su cui basarsi; gli scrittori non avevano raggiunto una qualità di scrittura abbastanza alta o una quantità abbastanza grande da giustificare tale lavoro. Quindi, se io, studente serio ed intenzionato a occuparmi di letteratura, ne sono stato allontanato, non mi sorprenderebbe sapere che lo stesso possa essere accaduto ad altri potenziali studiosi, in altre parti del mondo. Ma le cose stanno cambiando, man mano che sempre più giovani studiosi si stanno interessando ad aspetti della letteratura italoamericana che possa rivendicare un certo interesse. Grazie al lavoro di Francesco Durante, Martino Marazzi, e altri giornalisti e studiosi, la letteratura italoamericana è molto più disponibile per lo studente e lo studioso italiano. E grazie al lavoro di critici come Robert Viscusi, Mary Jo Bona, Anthony Julian Tamburri, Edvige Giunta e altri, quel lavoro è stato riconosciuto oggi come materia di studio. Quello a cui stiamo assistendo ora, sono studenti che si basano su quel lavoro già fatto e aprono quello studio a nuovi orizzonti, e questa è la chiave per cambiare le idee, sia dell’accademia italiana, che di quella americana, sull’utilizzabilità di tale curricolo di studio e area di ricerca.

In questo momento, a causa di COVID-19, probabilmente è passato un po’ di tempo dall’ultima volta che ha visitato il Vecchio Paese. Cosa le manca di più?

Sto entrando nel mio secondo anno senza Italia, un posto in cui sono abituato a trascorrere molto tempo, durante un anno “normale”. Mi mancano i miei amici, la mia famiglia che vive lì; mi manca il semplice atto di esserci. L’Italia è un posto a cui sento di appartenere, e questa sensazione l’ho avvertita fin dalla prima volta che ci sono stato, più di quarantadue anni fa. All’epoca ero un giovane ventenne irrequieto, a cui mancava un “qualcosa” nella terra in cui era nato; ecco perché viaggiavo verso l’Italia, per cercare quel “qualcosa”, senza sapere ancora cosa fosse. E devo dire che l’ho trovato davvero, quel “qualcosa”. Sono stato il primo della mia famiglia a tornare in Italia, dopo che i miei nonni l’avevano lasciata, più di cinquant’anni prima. Nel 1978, ho capito che se non mi sentivo americano, forse dovevo essere italiano. Ma una volta in Italia, ho scoperto che non ero né americano né italiano. Sono diventato qualcosa di nuovo, un italoamericano, e più di qualsiasi senso di appartenenza, ho trovato in Italia quel qualcosa che mi ha reso un essere umano più equilibrato. Ho passato la mia vita, da allora, a cercare di capire meglio cosa significasse tutto ciò, attraverso il mio stile di vita, i miei studi e i miei scritti. Non è che l’Italia sia un posto così magico, è che lì sono entrato in connessione con le energie e le conoscenze che hanno contribuito a rendermi l’individuo che sono. E questo, come ho capito solo di recente, è ciò che è “l’indigensosità” comporta.

1 La parola Indigenuity, intraducibile in lingua italiana, verrà identificata dal lemma indigenosità

(In copertina: illustrazione di Massimo Carulli)

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