Inediti

“La valigia”- un estratto dal manoscritto inedito “Sister 5” di Louise DeSalvo

Introduzione a cura di Edvige Giunta – traduzione italiana di Michela Valmori

“Ogni memoirista è una ghost writer”: Louise DeSalvo quattro anni dopo la sua morte—e la pubblicazione postuma di “Sister 5”/“La valigia”

Sembra appropriato che il primo scritto di Louise DeSalvo pubblicato dopo la sua morte, avvenuta quasi quattro anni fa, appaia sia nel testo originale e inedito in inglese sia in una nuova traduzione italiana. Come scrittrice americana, DeSalvo scriveva in inglese, ma nelle sue numerose opere di saggistica creativa e di memoir, ha affrontato e abbracciato un’identità culturale a cavallo tra gli Stati Uniti – dove è nata – e l’Italia, dove sono nati i suoi nonni e dove si è recata spesso, per ricostruire un rapporto interrotto dall’emigrazione.

DeSalvo ha trascorso la maggior parte della sua carriera di scrittrice a esplorare la natura del lavoro della memoria, nella sua ricerca testuale e nella biografia di Virginia Woolf, ma anche e soprattutto nell’ampio corpus di memoir che ha pubblicato tra il 1996 e il 2018. Il suo lavoro testimonia la vitalità di questo genere letterario, che si realizza, per gli autori impegnati nella sua esplorazione, attraverso la scrittura di diversi memoir. Non esiste un modo univoco di ricordare il passato. Come sapeva DeSalvo, basta spostare il punto di osservazione e nasce una nuova storia. Dalla narrazione di formazione di Vertigo alla narrazione intergenerazionale di Crazy in the Kitchen: Family, Feuds, and Forgiveness in an Italian American Family, alla narrazione storica di Chasing Ghosts: A Memoir of a Father, Gone to War, fino al suo ultimo magnifico libro, The House of Early Sorrows: A Memoir in Essays, in cui ritorna ai suoi scritti originali da cui poi sono scaturiti i suoi libri di memoir, l’impegno di DeSalvo con il genere è brillante, implacabile e istruttivo, e illumina il percorso per le scrittrici e gli scrittori di memoir determinate a spingersi oltre i limiti del genere.    

Il 28 settembre 2022, ci siamo riuniti per celebrare il compleanno di Louise in un evento ospitato da Strade Dorate. Sempre in questo mese, un’ampia collezione di documenti di DeSalvo è stata donata dalla Louise A. DeSalvo Literary Estate, LLC. alle biblioteche della Rutgers University, dove studiose e studiosi potranno consultare i documenti originali di Louise DeSalvo, inclusi i suoi diari degli ultimi quarant’anni, a partire dal 2028, dieci anni dopo la sua morte. I documenti si troveranno nelle Special Collections and University Archives of Rutgers University Libraries.

Questo mese, inoltre, abbiamo il privilegio di leggere per la prima volta un estratto del manoscritto incompiuto di DeSalvo, “Requiem for My Sister”, pubblicato qui con il permesso speciale della Louise A. DeSalvo Literary Estate, LLC. L’estratto è stato tradotto da Caterina Romeo, che ha portato Vertigo ai lettori italiani con la sua splendida traduzione del 2006. In “Requiem”, DeSalvo ritorna al racconto della sorella, iniziato in Vertigo, soprattutto nell’indimenticabile capitolo “Il suicidio di mia sorella”. Come lei stessa ci insegna, il lavoro della scrittrice di memoir non si esaurisce con la prima stesura di una storia: un primo memoir non fa che iniziare il lavoro di scavo. Ed ecco quindi il ritorno allo scavo incompiuto con “La valigia”, titolo scelto giustamente da Romeo. Abbiamo deciso di non fare correzioni o intitolare il testo dell’originale inglese, e usare invece il titolo che compare nel documento originale, “Sister 5.”

Mentre esaminavo i manoscritti inediti, ho avuto la fortuna di essere in costante conversazione con Ernest DeSalvo e Jason DeSalvo (i cui toccanti saggi sono anche pubblicati qui) e con la mia amica e collega Nancy Caronia, con la quale ho curato Personal Effects: Essays on Memoir, Teaching, and Culture in the Work of Louise DeSalvo. Abbiamo scelto insieme questo estratto da “Requiem for My Sister”, vivendo ognuna di noi in modo diverso la responsabilità e il significato di pubblicare gli scritti di Louise – i suoi scritti raffinati e incompiuti – ora che lei non c’è più. Ho anche fatto tesoro delle mie chiacchierate con Louise, la scrittrice, la compagna di scrittura, l’amica. Confido che tutto ciò che abbiamo imparato da lei stia guidando quelli di noi che si impegnano a prendersi cura della sua eredità letteraria.

Louise avrebbe fatto ottant’anni il 27 Settembre. Negli ultimi quattro anni tutti quelli che apparteniamo alla sua ampia cerchia d’affetti e di scrittura ci siamo rapportati con la sua perdita e i riverberi della sua assenza fisica—dico fisica perché la sua presenza si sente tutt’ora nelle vite di tanti, inclusi quelli che l’hanno conosciuta solo attraverso la sua scrittura. “Una mentore senza tempo,” la mia studentessa Julia Scott l’ha definita durante una lezione del mio nuovo corso su Virginia Woolf e Louise DeSalvo. Julia è una giovane donna che non ha mai incontrato Louise di presenza, ma si tiene strette le sue copie di The Art of Slow Writing e Vertigo come guide fidate. “Una mentore senza tempo”: Sono rimasta talmente commossa dalle sue parole che le ho condivise con Ernie e Jason, e le parole di Julia hanno avuto una risonanza per loro: Louise è proprio questo—una mentore senza tempo, anche nella sua famiglia. Quattro anni in cui abbiamo fatto i conti con la sua perdita, destreggiando lutto e tributo, il disorientamento della sua assenza e l’abbondanza dei suoi doni. Quest’anno però c’è qualcosa di nuovo: ci stiamo focalizzando sul futuro dell’eredità letteraria di Louise. È giusto che sia un’organizzazione come Strade Dorate a ospitare il festeggiamento del suo compleanno e la pubblicazione postuma, bilingue, di “Sister 5,” chiudendo il circolo, proprio come Louise ha fatto sia nella scrittura che nella vita, con un ritorno alla terra madre, la terra fantasma, la terra amata.

Nota: Il manoscritto di “Requiem for My Sister” è incompiuto; abbiamo deciso di non fare correzioni o intitolare il testo nell’originale inglese.

LA VALIGIA

di LOUISE DESALVO

traduzione italiana di CATERINA ROMEO

Da bambina era solita camminare in giro per casa, mia sorella, con in mano una piccola valigia di compensato che mio padre aveva fatto apposta per lei. Mio padre aveva trovato le istruzioni in una delle sue riviste di bricolage, aveva deciso di fare la valigia, era andato al deposito di legname a comprare il legno, poi in ferramenta a comprare le cerniere e la chiusura di ottone. L’avevo sentito dire a mia madre che per questo progetto aveva speso molto di più di quanto avesse preventivato, ma che sapeva che ne sarebbe valsa la pena. Le disse che voleva far contenta mia sorella e pensava che in questo modo ci sarebbe riuscito.

Siccome la valigia doveva essere uno dei regali per mia sorella, nelle settimane prima di Natale ci fu proibito di andare nel seminterrato. Sapevamo che nostro padre stava costruendo qualcosa, ma non sapevamo che cosa fosse, e lei non sapeva neanche per chi fosse. Dopo cena lo sentivamo usare la sega, la carta vetrata, il martello. E a volte lo sentivamo imprecare, il che voleva dire che le cose non stavano andando proprio nella giusta direzione.

Per qualche giorno io e mia sorella a turno abbiamo cercato di immaginare a che cosa stesse lavorando nostro padre e per chi sarebbe stato il regalo. Io sapevo che sarebbe stato per lei ma non gliel’ho detto. Non che non glielo abbia detto per non rovinarle la sorpresa, piuttosto non volevo farmi sgridare per avergliela rovinata.

Non ricordo di essere stata gelosa. Immaginavo che qualunque cosa mio padre stesse facendo non sarebbe potuto essere un grande capolavoro. È vero, lui era bravino come falegname. Aveva fatto un mobiletto ad angolo per la cucina, lo aveva rifinito con il linoleum. E aveva fatto delle mensole che stavano giuste giuste nello spazio sopra una cassettiera riadattata, sulle quali era stata adagiata la collezione di ceramiche decorate di mia madre. Per quanto fossi piccola, però, capivo che quelle mensole sembravano improvvisate, fai da te, anche se assolvevano alla loro funzione.

Dopo qualche tempo abbiamo smesso di cercare di indovinare che cosa mio padre stesse facendo e, nei giorni subito prima di Natale, abbiamo ripreso la nostra routine del dopo-cena in cui io facevo i compiti al tavolo della cucina e mia sorella, seduta dall’altra parte del tavolo, faceva finta di avere anche lei compiti da fare ma, di fatto, mi dava solo fastidio. Dopo un po’ io dicevo a mia madre di dire a mia sorella di andarsene in modo tale che da potermi concentrare, ma mia sorella si rifiutava di andarsene finché mia madre non la prendeva in braccio e la portava al piano di sopra e la metteva a letto.

Gli unici momenti in cui riuscivo a liberarmi di mia sorella senza litigare erano quando dovevo fare i compiti, e quindi più compiti avevo da fare e più ero contenta. E nelle rare occasioni in cui le suore non ci davano compiti, o almeno non ce ne davano molti, ne inventavo uno e poi fingevo che ce lo avessero assegnato (scegli cinque parole che non conosci dal libro che stai leggendo, cercale nel dizionario e memorizza il significato; scegli un Paese, vai in biblioteca e prepara una piccola relazione sui suoi prodotti di maggiore esportazione).

Quell’anno io e mia sorella aiutammo i nostri genitori a decorare l’albero. Quel Natale tutto andò in modo quasi miracoloso. Non ci furono liti mentre aiutavamo con le decorazioni e gli ornamenti. Nostro padre aveva districato i fili delle luci senza scaraventarle dall’altra parte della stanza e senza romperle. Nostra madre aveva avvolto le statuette del presepe con tale cura l’anno precedente che non se n’era rotta neanche una. L’albero si ergeva fiero senza piegarsi neanche un po’ verso destra o verso sinistra, senza bisogno di continui aggiustamenti. Io e mia sorella facemmo insieme e senza litigare una decorazione per l’albero con la carta colorata, e anche se ciò significava che non potevamo tenere le luci dell’albero accese quanto avremmo voluto—perché mio padre, che era un pompiere, sapeva che c’era il rischio che l’albero prendesse fuoco—eravamo fiere del lavoretto fatto con le nostre mani e felici di vederlo appeso all’albero.

La sera della Vigilia io e mia sorella abbiamo cantato i canti natalizi di fronte all’albero. Anche allora, già da piccola, lei aveva una voce d’angelo. Aveva ereditato la musicalità di mio padre—o almeno così diceva lui. E a volte, ma non molto spesso, la sentivamo cantare mentre giocava con le bambole e allora sapevamo che era felice.

Quell’anno, mentre io e mia sorella cantavamo lì in piedi di fronte all’albero la sera della Vigilia di Natale, io avevo notato che una delle decorazioni di vetro rosso rifletteva le nostre facce, che apparivano distorte, macabre, terrificanti. Non lo feci notare a mia sorella ed ero contenta che lei sembrasse non averci fatto caso. Sapevo che farglielo notare ci avrebbe rovinato la serata, dal momento che ogni cosa anche minimamente fuori dall’ordinario la faceva piangere.

Ricordo che quella sera eravamo tutte e due davvero contente, per una volta, eccitate all’idea del mattino dopo, anche se sospettavamo che avremmo ricevuto i soliti regali, cose pratiche, utili—biancheria intima e calzini, un accappatoio, un pigiama—e non quelle frivole e fantasiose che avevamo sperato, sognato. Sicuramente non i gioielli di lusso o i vestiti sfarzosi o i soldi che i nostri amici chiedevano e che poi si vantavano di aver ricevuto. Però—avevamo detto entrambe mentre ci mettevamo nel letto matrimoniale che condividevamo—c’era il regalo misterioso. Forse era per una di noi. Forse ce n’erano due di regali, uno per ciascuna. Ma poi avevamo pensato che sarebbe stato per nostra madre, qualcosa per la cucina, una mensola da mettere alla finestra per i contenitori di ceramica per sale e pepe che le avevamo regalato per il compleanno.

La mattina di Natale io e mia sorella siamo scese di buon’ora. E sotto l’albero, proprio lì, c’era una piccola valigia di compensato con cerniere e chiusura in ottone, con una verniciatura satinata color mogano e un fiocco rosso legato sulla maniglia. Mio padre era fiero di quel lavoro, e quando lo aveva offerto in dono a mia sorella le aveva spiegato come lo aveva fatto, le aveva detto quante mani di vernice aveva dovuto passare sul compensato. A differenza di me, a lei piaceva ascoltarlo mentre le spiegava del bricolage, e ascoltava con attenzione mentre lui le mostrava come aveva fissato le cerniere che tenevano insieme il coperchio e il corpo della valigia.

Quello era il regalo più bello del mondo, le aveva detto lei.

Poi lui, però, si era rivolto verso di me e aveva rivelato l’intenzione di fare un regalo anche per me, ma non per Natale, per il mio compleanno, a Settembre, in modo tale da avere tempo a sufficienza. Aveva deciso di fare una scrivania triangolare con un cassetto, che sarebbe entrata perfettamente nello spazio in cima alle scale. In questo modo avrei potuto fare lì i compiti senza essere disturbata da mia sorella. E in effetti l’ha fatta, quella scrivania, ed era pronta per il mio compleanno, e io me la sono portata via quando mi sono sposata, e l’ho messa nell’angolo della camera da letto del nostro primo appartamento a Jersey City, e l’ho usata per anni.

Ora, essendo passato tutto questo tempo e sapendo ciò che poi è successo a mia sorella, ricordo quel Natale e la valigetta di mio padre e penso che sarebbe stato meglio se lui non avesse menzionato il regalo che aveva intenzione di fare per me. Sarebbe stato meglio che lui le avesse lasciato quel momento tutto per lei, un momento in cui sentirsi speciale, prescelta, accudita, anche se, è probabile, lui lo aveva fatto per non provocare la mia gelosia.

Mia sorella aveva cinque anni. E quando mio padre le chiese per che cosa avrebbe utilizzato la valigia, lei rispose che l’avrebbe portata con sé nei suoi viaggi immaginari.

Io credevo di conoscere bene mia sorella. Ma non l’avevo mai sentita parlare di queste cose, non sapevo che lei facesse finta di essere in posti diversi da quelli in cui si trovava in realtà, di solito con me. Eppure, quel giorno di Natale, la sua vita interiore non mi interessava così tanto da chiederle dove aveva intenzione di andare e che cosa sperava di trovare in quel posto una volta che lo avesse raggiunto.

Le mattine del fine settimana mia sorella riempiva la sua valigia di piccoli articoli di vestiario di nostra madre—un foulard, della biancheria intima, una borsetta, un paio di calzini. E se era uno di quei giorni grigi e piovosi che non ci consentivano di uscire (una gioia per me, visto che ciò voleva dire che nostra madre non poteva obbligarci a uscire, non mi poteva chiedere di portarmi dietro mia sorella dovunque andassi—a casa di un’amica, in parrocchia, al Sweet Shoppe in fondo alla collina a comprare gomme o caramelle) mia sorella prendeva la sua valigia e la portava da una stanza all’altra, su e giù per le scale, e sembrava una persona minuscola fuori posto nel mondo in cerca di un luogo sicuro dove trovare riparo. La metteva sul tavolinetto in salotto, o sul tavolo in sala da pranzo o in cucina, o sul suo lato del letto, e tirava fuori tutte le cose che prima ci aveva messo dentro. Poi la osservava e decideva, secondo una regola logica ai miei occhi incomprensibile, se quelle cose erano adatte alla destinazione prescelta o se invece non andavano bene e doveva riporle dove le aveva prese e doveva cercare altri articoli adatti da mettere in valigia. Ma a volte, anche se si sforzava, niente la soddisfaceva, e allora cominciava a piangere.

Se mio padre era a casa, se non era alla caserma dei pompieri dove passava molto tempo, lui cercava di farla ragionare, le diceva che qualsiasi cosa avesse scelto sarebbe andata bene, che non aveva importanza, che in fondo era solo un gioco—non poteva semplicemente far finta che qualsiasi cosa andasse bene?—e che se avesse saputo che la valigia che le aveva fatto le avrebbe causato tutta quell’angoscia non si sarebbe mai preso la briga di fargliela.

Alle volte mia madre cercava di venirle in aiuto, le offriva un gingillo, un gioiello finto, un paio di guanti, ma di solito desisteva se il suo primo tentativo di consolazione non sortiva alcun effetto.

Alla fine il regalo che mio padre aveva fatto con tanta fatica per mia sorella non l’aveva resa felice. Forse perché lei sapeva che mio padre avrebbe fatto per me qualcosa di più grande e più bello. Ma forse invece perché lei aveva carpito un significato recondito di quel regalo. Cioè, che mio padre non voleva che lei rimanesse con noi. Che sperava che avrebbe fatto le valigie e se ne sarebbe andata.

Che è esattamente ciò che fece appena dopo la laurea. Si sposò, fece le valigie, e poi si spostò da un posto a un altro, dovunque gli studi e la vitalità di suo marito lo conducevano: nel Midwest, in un’isola dei Caraibi, in un’isola al largo delle coste della California, sulla costa del Pacifico nel Nord-Ovest. E nessuno di noi ha mai saputo, fino a quando è morta, che ogni volta che traslocava portava con sé la sua valigia di legno, perché era tra le sue cose quando hanno restituito i suoi effetti personali ai nostri genitori E anche se la superficie era graffiata, le cerniere e la chiusura luccicavano ancora come quella mattina di Natale. E questo voleva dire che, in tutti quegli anni, mia sorella non aveva mai smesso di lucidarle.

In copertina: illustrazione di Barbara Di Bernardo – Bidibì Design

Questo estratto da “Requiem for My Sister” è pubblicato qui con il permesso della Louise A. DeSalvo Literary Estate, LLC e non può essere riprodotto altrove senza il permesso dell’Estate.

Louise A. DeSalvo, un’incredibile studiosa, madre, ricercatrice

A cura di Jason DeSalvo, traduzione italiana di Michela Valmori

C’è ben poco che io possa aggiungere a una discussione accademica sul lavoro di mia madre, ma conoscendola bene e condividendo molti dei suoi tratti caratteriali, forse potrebbe essere utile raccontarvi qualcosa di più intimo su di lei, di come lavorava e sapeva bilanciare la sua straordinaria produzione professionale con l’essere il nostro capofamiglia (scusa papà!)!

Sebbene fosse eccezionalmente istruita, era anche un’autodidatta.  La mamma leggeva, scriveva e studiava in continuazione.  Aveva una mente che non si fermava mai e sia che si trattasse di Woolf, Hawthorne, della Seconda Guerra Mondiale e della Diaspora italiana o di pasta, ristoranti, modi per mantenersi in salute, musei e lana, l’approccio era sempre lo stesso: trovare le migliori menti sull’argomento (vive o morte) e leggere tutto ciò che avevano da dire.  E quando dico “tutto”, intendo letteralmente tutto: libri pubblicati, articoli di riviste, post di blog, siti web, giornali, riviste scientifiche, tutto quanto.  Sebbene ne fossi consapevole da piccolo, quando di recente ho passato al setaccio centinaia di scatole di materiale di partenza per i suoi libri, in vista della donazione di questi materiali alla biblioteca della Rutgers University, la mole di ciò che leggeva, imparava ed era poi in grado di sintetizzare in nuove intuizioni uniche e potenti sui suoi argomenti era sorprendente.

La mamma prendeva molto sul serio il fatto di essere un’esperta in materia, una caratteristica che condivido felicemente e che ha ereditato da suo padre, Louis.  Quando di recente ho lavorato alla costruzione di una nuova casa a energia zero con mia moglie Deborah, spesso istruivo i nostri appaltatori sulla base di cose che avevo studiato e letto, non il contrario.  Uno dei miei grandi rimpianti è che la mamma non fosse ancora presente per assistere allo svolgimento di questo progetto, perché avrebbe senza dubbio offerto spunti unici basati su cose che avrebbe studiato e letto – solo per essere una madre e un’amica di supporto.  Era così e tutti noi

abbiamo apprezzato questo aspetto di lei.  Prendeva sul personale qualsiasi problema che stavo affrontando come se fosse il suo.  Che si trattasse di una conversazione affettuosa con consigli premurosi o di libri e articoli – sulla dieta corretta per i ciclisti agonisti (quando gareggiavo), sulle liste dei migliori ristoranti di Parigi (quando io e Deb ci andavamo in vacanza), o su come diagnosticare e curare la malattia di Lyme (da cui tutti nella nostra famiglia, tranne papà, hanno sofferto) – potevi sempre sentire l’amore che ti stava dimostrando e l’incredibile potere della sua mente.

Si trattava di un essere umano di infinita profondità, passione, amore e complessità – e non lo dico solo come figlio affettuoso, ma obiettivamente, come qualcuno che, come Louise stessa, è spesso afflitto dal vedere l’unico difetto in una persona altrimenti perfetta.  Spero vivamente che con il passare degli anni, grazie a eventi come questo, ai racconti di coloro che l’hanno conosciuta, amata e seguita e alla possibilità di accedere al suo lavoro scientifico alla Rutgers, la sua eredità non solo continui a vivere, ma cresca.

Alcune cose su Louise DeSalvo

di Ernest J DeSalvo

(marito, padre, resident literary assistant e life coach)

Per coloro che le erano vicini e la conoscevano bene, Louise era più di una scrittrice, di un’insegnante o di una professoressa. Era anche moglie, madre, cuoca, magliaia, artista, amica e viaggiatrice. E, sotto tutto questo, nel profondo della sua identità, era una donna italoamericana cresciuta da genitori complicati e problematici che hanno lasciato un’impronta indelebile sulla sua personalità. Era, per dirla chiaramente, una donna italo-americana di seconda generazione, appartenente alla classe media-operaia.

Louise ne ha parlato apertamente o vi ha fatto riferimento nei suoi sue memoir e nei suoi saggi; ma, negli scritti attualmente disponibili, raramente ha parlato dell’impatto che questo amalgama di realtà – la sua intensa etica del lavoro e l’insistenza quasi maniacale sulla verità, l’accuratezza e la struttura letteraria – ha avuto sulla sua vita personale e su quella delle persone che amava. Ne condividerò un po’ con voi.

A Louise piaceva fare confusione.

Che stesse cucinando, scrivendo, lavorando a maglia o pianificando non faceva differenza. L’evidenza che tali attività si stavano svolgendo non richiedeva un’acutezza incredibile. Era come se fosse in trance frenetica. Non c’era alcuna prova esteriore che la mente razionale fosse al lavoro. Pile di piatti sporchi, cucchiai misuratori, risme di pagine scritte o battute a macchina senza un ordine razionale, centinaia di gomitoli di lana sparsi sul pavimento dei suoi spazi di lavoro e liste interminabili di “cose da fare oggi” facevano parte della realtà familiare della nostra madre/moglie creativa.

Ciò che era evidente era che lei era nel momento, felicemente e diligentemente creando. Non faceva differenza se si trattava di una nuova ricetta per il pane o di un’analisi approfondita di materiali testuali: era un evento estasiante che non tollerava alcuna interferenza.

Nessuna interferenza, cioè, fino a quando qualsiasi cosa stesse cucinando, scrivendo, lavorando a maglia o progettando non fosse finita! Poi guardava i risultati (la devastazione?) dei suoi sforzi creativi (che potevano aver richiesto ore o mesi per essere completati) e mi chiedeva docilmente se l’avrei aiutata a pulire o a organizzare il prodotto risultante.

Da questo ho tratto il primo articolo del “Compendio di Louise delle leggi per trattare con le persone creative”: Non intralciarli finché non ti chiedono assistenza. Non riesco a contare il numero di volte in cui mi è stato detto: “Vaffanculo fuori dalla mia cucina e lasciami in pace!”. L’ho preso sul serio perché si trattava di una donna napoletana con un coltello in mano. Fu per questo motivo che le chiesi se si rendeva conto di essere pazza in cucina e che questa era la mia diagnosi professionale di medico!

Nella sua scrittura, Louise si preoccupava dell’ordine solo dopo aver completato l’atto creativo.

Bisogna considerare che il completamento per Louise era un termine relativo; esistevano i concetti di completamento prossimale e di completamento finale. Il completamento prossimale si verificava in un momento noto solo a lei come scrittrice. Nasce da un’inspiegabile consapevolezza che ciò che doveva essere detto è stato detto. Il prodotto si presentava spesso come una montagna di fogli con intestazioni numerate. Il tutto sembrava piuttosto impressionante, finché non veniva reso noto il fatto inquietante che la scrittrice non era esattamente sicura che l’ordine dei “capitoli” – o, addirittura, delle pagine – fosse corretto.

Ecco il “problema della cucina” portato al livello del “word processor”.

Quando mi chiedeva di sfogliarli, la scoperta era ovvia: Louise aveva avuto un’intuizione profonda, una sensazione o un’immagine lontana di ciò che alla fine avrebbe trasformato attraverso la sua bella prosa; ma non scorreva cronologicamente o anche logicamente dall’intuizione precedente. Era proprio come la sua cucina: un pensiero doveva essere realizzato senza alcun legame con un piano dietetico, un piano alimentare settimanale o altro. Nasceva dalla sua voglia di creare.

Così, avevamo fino a trenta o quaranta tranche di scrittura brillante, spesso senza alcun collegamento logico tra loro. La salvezza era che la maggior parte di queste erano collegate al tema principale dell’opera contemplata, ma non sempre: in una di queste raccolte, ho trovato abbastanza tranche da creare due libri separati!

Tutto questo richiedeva una soluzione concreta. Ciò significava esaminare tutte le tranche disponendole in un ordine logico. Ciò ha richiesto che io leggessi prima ogni tranche con lei per capire la portata del progetto di editing e di organizzazione. Era chiaro che né il tavolo della cucina né quello della sala da pranzo avrebbero potuto ospitare il lavoro, così andavamo nell’ufficio della mia azienda, dove usavamo un tavolo da 12 piedi della sala riunioni. Lì stendevamo le tranche e io leggevoognuna di esse. Lei aveva una certa conoscenza dell’ordine di alcune tranche, ma quasi mai c’erano elementi di collegamento che permettevano un flusso o una transizione fluida per il lettore.

Naturalmente, risolvevamo sempre il problema. Ho imparato molto su come funzionava la sua mente e, soprattutto, su come comportarsi con una persona creativa.

Questi esempi costituiscono un piccolo frammento dei molti momenti meravigliosi (e a volte non così meravigliosi) della mia relazione di cinquantacinque anni con questa donna straordinariamente complessa, intelligente e affettuosa. Non passa giorno senza che vi sia un ricordo vivido di Louise: alcuni mi fanno ridere, altri mi fanno piangere, ma tutti sottolineano quanto fosse una persona incredibile e quale dono sia stato condividere le nostre vite.

Le mie considerazioni- una nota di Caterina Romeo (traduzione di Michela Valmori)

Vertigo è stato il primo testo lungo di scrittura creativa che ho tradotto integralmente. Era il 2006. Mi sono sentita e mi sento tuttora privilegiata ad essere la traduttrice italiana di Louise DeSalvo. Privilegiata di poter dare voce a Louise nella lingua dei suoi antenati. Privilegiata nel trasferire la narrazione di Louise in un sistema culturale che non è più quello dei suoi antenati, ma che proprio in esso affonda le proprie radici. Mi sono sentita privilegiata, ma all’epoca non sapevo quanto sarebbe stato complesso il processo di traduzione. Ho imparato allora, e me lo sono ricordata giorni fa mentre traducevo questo estratto, che, come traduttrice, è necessario porsi una serie di domande, di questioni etiche.

Quando Edi mi ha chiesto di tradurre “Sister 5” – questo è il titolo dell’estratto che mi è stato inviato – ho accettato con tutto il cuore. Dopo tanti anni dalla mia traduzione di Vertigo, questa volta sapevo già che il processo di traduzione mi avrebbe lasciato profondamente soddisfatta e frustrata allo stesso tempo. Perché, come ci ricorda Umberto Eco, tradurre significa sempre “dire quasi la stessa cosa”. Perché tradurre non è un processo trasparente. Bisogna fare delle scelte, aggiungere parole, tagliare parole, cambiare la punteggiatura, i tempi verbali, rimanendo sempre il più possibile vicini al testo originale. Il processo di perfezionamento di una traduzione è molto più lungo di quello stesso di traduzione. Ciò che dico sempre ai miei studenti e alle mie studenti, nelle rare occasioni in cui faccio lezione di traduzione, è di ricordare che quello non è il loro testo. Eppure, non lo è forse anche un po’? Cosa comporta il processo di prestare la propria voce a un’altra scrittrice? Quanto della presenza della traduttrice o del traduttore può essere tollerata in un testo? Quanto della loro presenza è eticamente accettabile in un testo? Allo stesso tempo, se tutti gli scrittori sono soggetti incarnati che hanno un posizionamento specifico all’interno di un contesto sociale, storico e geopolitico, lo sono anche i traduttori. Tradurre significa trasferire, poiché i due termini hanno la stessa etimologia latina e lo stesso significato: portare attraverso. Questo è, potremmo dire, il compito della traduttrice e del traduttore: portare il lettore attraverso le lingue e i sistemi culturali, mantenendosi allo stesso tempo presente nel testo e assente da esso

Mentre traducevo “Sister 5” provavo un profondo rispetto per i ricordi intimi che mi erano stati affidati e che ero chiamata a portare attraverso le lingue e i sistemi culturali. Tradurre un memoir, in particolare quello di Louise, è un processo complesso e difficile sotto molti aspetti. Uno degli aspetti che ho trovato più impegnativi in “Sister 5” è la temporalità. I tempi verbali non sono sempre nella giusta consecutio temporum. Louise oscilla tra passato e trapassato. Ho cercato di riprodurre questa temporalità non lineare utilizzando sia il passato prossimo che il passato remoto. Tale incongruenza temporale induce il lettore a fermarsi. Le fratture, le rotture, le interruzioni sono necessarie per segnalare la frammentazione del soggetto scrivente. Eppure, questa volta più che mai, ho dovuto resistere alla tentazione di sistemare le incongruenze nei tempi verbali. Quasi che sistemare tali incongruenze potesse anche appianare le vite. Quasi che una narrazione coerente potesse riportare indietro Jill. Potesse riportare indietro Louise.

Come ha affermato di recente Loredana Polezzi, “gli itinerari che scopriamo attraverso [il processo di traduzione] sono tutt’altro che semplici viaggi da un luogo all’altro. Comportano movimenti multipli, rifrazioni, rimediazioni, attraverso lo spazio e il tempo. Nel processo, le lingue non vengono solo sostituite, ma anche giustapposte e mescolate, i ricordi vengono creati e fatti circolare attraverso i confini geografici e generazionali, il senso di sé e della comunità viene prodotto, rafforzato, manipolato o trasformato”. (In Transnational Italian Studies, 45). Spero di essere riuscita a fare tutto questo. Spero di essere riuscita a rendere giustizia a “Sister 5”.

Leggi tutti i testi in lingua inglese cliccando qui

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