Interviste

Uno scrittore italoamericano in Sudafrica: Corrado Passi

di EMANUELE PETTENER

Mi è difficile celare la mia ammirazione per Corrado Passi. La sua scelta di abbandonare l’Italia e una fulgida carriera di chirurgo per emigrare a Cape Town e dedicarsi anima e corpo alla letteratura me lo ha reso sin da subito un eroe romanzesco. Quando poi lessi Los Angeles, paradise (Emersioni, 2019) rimasi impressionato dalla sua arte, dalla sostanza letteraria di ogni parola, ogni frase, dalla sua capacità di penetrare nella luce e nella malinconia del paesaggio americano: che scrittore! Qui lo definisco italoamericano, ma come sempre va scansato il pericolo delle classificazioni; si tratta solo di una prima indicazione per tracciare la cornice entro la quale si dipana l’arte di Passi, un romanziere italiano di nascita e di lingua, formatosi (anche) in America e la cui materia narrativa è, spesso, profondamente americana.

Caro Corrado, la sua vicenda biografica di scrittore è molto particolare. Ce la vuole raccontare?

Caro Emanuele, la ringrazio molto – e, con lei, “Strade Dorate” – per l’ospitalità concessami.

Io sono nato a Cremona nel 1963 ma, dall’anno successivo, ho vissuto a Verona. Dopo il Liceo Classico e una laurea in Medicina e Chirurgia, alla fine degli anni Ottanta mi sono trasferito a Los Angeles per frequentare un corso di specializzazione all’UCLA (University of California, Los Angeles). Tornato in Italia, ho esercitato la professione medica per quasi vent’anni, un tempo sufficiente per comprendere di aver sbagliato e di voler tornare a ciò che, sin da ragazzo, ha sempre catalizzato il mio interesse e generato la mia vera passione: la letteratura e, in particolare, la scrittura. Vent’anni fa, dopo il mio divorzio, in occasione di un congresso medico tenutosi in Sudafrica, sono rimasto folgorato dalla bellezza di quella terra e della sua gente e, dopo pochi mesi, ho deciso che là avrei voluto vivere. Mi sono trasferito a Cape Town con la mia compagna e con suo figlio, allora bambino; ho quindi abbandonato per sempre la mia professione e mi sono dedicato alla scrittura. Per quindici anni, inoltre, con una mia società, ho organizzato viaggi culturali all’interno della nazione; questa attività, attualmente, è in attesa che si rigeneri l’interesse per le terre lontane, scemato dopo i recenti trascorsi pandemici.

L’America ha un ruolo fondamentale nella sua formazione di uomo e di scrittore. Cosa le ha dato, cosa le ha tolto?

L’America – che era ed è, tuttora, una nazione di frontiera, un luogo cui si approda dopo un viaggio, un percorso che comporta una scelta, un cambiamento dell’orizzonte esistenziale – vissuta da me per la prima volta a poco più di vent’anni, mi ha svelato, sin dall’inizio, la forma visibile, palpabile, della malinconia. Si tratta di un sentimento che, altrove, infierisce su chi giunge da lontano, su chi porta con sé un ricordo, una nostalgia; in America, al contrario, esso pervade l’anima, il lato più nascosto di tutti i suoi abitanti. È una suggestione, questa, che nulla ha a che vedere con l’immagine superficiale, stereotipata, ritratta dai media. Si tratta di un modus vivendi, un punto di vista che, proprio perché generato da un popolo naïf, è capace di creare incanto in chi, per la prima volta, lo incontra. Vivere nel Nuovo Mondo, e mi riferisco anche al Sudafrica, comporta una distanza siderale dalla Storia, un elemento visibile, palpabile, cui ci siamo abituati sin da piccoli: per recarmi a scuola, a Verona, percorrevo un ponte romano, e l’edificio scolastico guardava, dalla sponda opposta del fiume, il teatro romano; a Westwood, un sobborgo di Los Angeles, allora si celebrava quale vestigia dal valore sacrale il Fox Theatre, costruito nel 1918; in Sudafrica la Storia (mi riferisco a quella che, per noi occidentali, è storia di conquista, di colonizzazione) inizia alla fine del ‘600 e ben poche testimonianze visibili, di quell’epoca, sono rimaste a segnarne il tempo. E la Storia, per chiunque, svolge la funzione terapeutica di segnare il tempo e, in qualche misura, di giustificarci quali esseri umani qui, là presenti. L’America, e il Nuovo Mondo in generale, ci negano tutto ciò che è Storia intesa in senso artistico, monumentale, urbanistico, e questa è indubbiamente una perdita. Per contro, queste nazioni recenti affinano la nostra percezione nei confronti di un’altra storia, e di tutte le storie minori, quelle che riguardano l’umanità – sia essa urbanizzata o abitante una provincia dimenticata – e le sue storie precedenti: si tratta di microcosmi, fotogrammi, frammenti di memoria che le persone conservano gelosamente in una camera da letto, in soggiorno; è la vita che hanno portato con sé durante il viaggio, le loro tradizioni familiari, quell’humus ontologico che, ovunque emigri, ti resta nell’anima sotto forma di malinconia, di ricordo. In questo senso, l’America, il Sudafrica, espandono il concetto di tempo, lo mettono a nudo e, di fatto, lo umanizzano.

Se qualcuno leggesse Los Angeles, paradise (Emersioni, 2019), Rego Park (Castelvecchi, 2021) e Liturgia delle pianure (Readaction, 2023) senza informazioni sull’autore (come forse si dovrebbe fare, per mantenere puri i nostri giudizi di lettura), penserebbe che si tratti di romanzi americani tradotti (in modo eccellente) in italiano sia per l’immersione totale, fisica e psicologica, in un’ambientazione americana, sia per lo stile, così poco italiano. Come lei “è fuggito dall’Italia”, anche la sua letteratura sembra una continua fuga dal nostro Paese o forse proprio dalla letteratura italiana. La mia è un’interpretazione avventata? E anche se lo fosse, posso chiederle cosa tiene a distanza del nostro Paese e della sua letteratura?

Quando si lascia l’Italia fisicamente, per emigrare altrove, si compie una fuga. E questa fuga, con il tempo, viene percepita come una sorta di tradimento estetico che, prima o poi, siamo obbligati ad ammettere in primis di fronte allo specchio e, dopo averne respinto il costante assalto quotidiano, anche a coloro che in Italia sono rimasti. Non credo di aver abbandonata la letteratura italiana; per me, sin da giovane, è stata un oggetto di grande passione. Né ritengo sia possibile mantenere le distanze da qualsivoglia genere letterario conosciuto e consumato con voracità animale negli anni di formazione. Nel mio caso – mi riferisco sia all’esperienza americana sia a quella sudafricana, ormai ultraventennale – il mondo anglosassone ha costituito una sorta di iniziazione all’osservazione, alla drammaturgia rurale, stradale. A Los Angeles, a Cape Town, spogliatasi di ogni sovrastruttura culturale residua, l’umanità ha la capacità di trasformare il nulla – un supermercato, l’ufficio per il ritiro del Social Security Number o un bar, sia esso situato lungo un boulevard infinito e rettilineo della metropoli o rappresenti l’ultimo avamposto prima del deserto – in un cosmo vitale; la solitudine delle persone diviene un significante, un segno fisico capace di rivitalizzare lo spazio e di trasformarlo in un microcosmo dal valore universale. Appaiono, le persone, prive di buona parte della sovrastruttura culturale europea; l’umanità riempie il vuoto immenso delle grandi pianure e diviene, naturalmente, mitopoietica.

Quali sono gli scrittori americani ai quali riconosce un debito nella sua formazione di intellettuale e di narratore? E chi, al di fuori degli Stati Uniti?

Mi sono formato e ho imparato ad amare la letteratura americana leggendo Melville, Poe, Muir, Fante, Twain, Fitzgerald, Hammett, Chandler; Faulkner, Hemingway, Steinbeck, De Lillo; se ci riferiamo ad autori al di fuori degli Stati Uniti, rileggo con grande interesse Shakespeare, Cervantes, Cèline; i Dubliners, di James Joyce. Manzoni. Coltivo, da sempre, la lettura. Essa si connota sempre più come un atto spirituale, un gesto di devozione verso il segno, il suono, la tensione. Rileggere i classici greci è, nel mio quotidiano, un atto di contemplazione.

La sua scrittura è sensoriale, fa appello a tutti i sensi del lettore, e in particolare si distingue per una capacità quasi pittorica di rendere il colore; mi chiedevo se, nella sua educazione di scrittore, oltre alla letteratura e all’esperienza biografica, abbiano avuto rilevanza le arti visive la pittura, il cinema…

Le arti visive – il cinema in particolare – sono state importanti per la mia formazione estetica, non ho dubbi. Ma ritengo che la mia ossessione innata, il desiderio onnipresente, ovunque io mi trovi – mi capita in ospedale, quale paziente in attesa di un intervento, o per strada, seduto in un caffè, in fila in un negozio, in attesa del bus – di osservare gli altri e le loro relazioni fisiche, mimiche, con lo spazio che li circonda, sia stata fondamentale per stimolarmi, sin da giovane, a immaginare, deformare, rileggere la realtà. In narrativa, un luogo parla attraverso l’odore di un fosso, l’imbrunire; una persona, attraverso i gesti delle mani, il modo di indossare un cappello. La sinestesia, l’elemento sensoriale, è un aspetto importante: noi, come lettori, percepiamo con tutti i sensi, li integriamo. La scrittura, a mio parere, diviene efficace quando la descrizione, lo stimolo esterno, cedono il passo all’immaginazione che scopre angoli bui, oscuri; quando un dettaglio, passato inosservato, ci introduce in un cosmo nuovo, in una situazione inattesa, non concepita prima. In questo senso, anche il tempo, il ritmo, la sincronicità sono fondamentali; da essi scaturiscono scintille, nuclei, frammenti di nuove narrazioni che aprono una finestra, un nuovo punto di vista sul mondo reale e su quello immaginato. Tutto ciò comporta una visione organica della scrittura: essa è una struttura che vive e, nel caso dell’opera, si muove come un tutt’uno, in modo articolato, sinergico.

Il suo senso del colore e delle luci viene sicuramente nutrito quotidianamente dal suo Paese d’elezione, il Sudafrica, che emerge nei romanzi Oltre la vita felice (Polaris, 2018), L’intensità della luce (Emersioni, 2019) e nella guida Cape Town (Polaris, 2017). Perché ha scelto questa terra, e cosa le offre, come uomo e come artista?

Il Sudafrica è una terra australe, a Sud di quella linea di demarcazione geografica e cosmologica che chiamiamo Equatore. Inoltre, è una nazione dominata dagli elementi naturali; in Sudafrica esistono alcune tra le più antiche montagne del mondo e la luce atmosferica è particolarmente incisiva, disegna profili e imprime i colori con una velocità di cambiamento sconosciuta nell’emisfero Nord. Come ho accennato all’inizio, il primo contatto con il Sudafrica è avvenuto grazie alla mia professione medica: ciò che ho mal tollerato per anni è divenuto, all’improvviso, il ponte di unione tra me e questa terra. Si è trattata di una scelta quasi inconsapevole, all’inizio. Mi trovavo in un’aula, partecipavo a un congresso di chirurgia. Mi resi conto subito che la mia attenzione non era catalizzata dalle ricerche scientifiche dei relatori ma dalle nuvole che, come accade ogni giorno, nel primo pomeriggio, cadevano a cascata sulla città, trasformandola in un luogo surreale, magico. Una coincidenza, una sincronicità, insomma. Consapevole, invece, è stata la scelta successiva di trasferirmi con la mia compagna e suo figlio, molto piccolo. Credo che questa terra mi abbia spinto a cercare di recuperare, con coraggio, tre decenni di scrittura lasciata sospesa. La sua gente, i suoi paesaggi hanno trasformato la solitudine che noi tutti, europei, viviamo con imbarazzo – quasi la vita debba ricondursi, di fatto, a una timida partecipazione alla Storia, alla natura, all’umanità – in una sorta di quotidiano svelamento: qui, ovunque tu sia, sei parte di un cosmo aperto, dominante; descriverlo è inutile, devi percepirlo nella sua potenza ineluttabile e sentirtene parte. È una terra, geologicamente parlando, così antica da farti sentire, oggi, testimone vivente di un’evoluzione antropologica; non sei un personaggio su un palcoscenico dominato dalla Storia, sei parte delle quinte teatrali, materia, tessuto del sipario. Continui a vivere anche dopo la fine dell’opera.

Lei per il gruppo Castelvecchi lavora anche come editor.  L’editor è una delle figure più temute dagli autori. Quali sono le qualità essenziali di un editor nei confronti di un testo?

Da alcuni anni, in qualità di collaboratore esterno, mi occupo di narrativa letteraria, dedicandomi ai testi sia per ciò che riguarda l’analisi e la revisione degli stessi sia per ciò che concerne la selezione delle opere da pubblicare. Talvolta l’autore è titolare di una storia ma non ha le competenze tecniche necessarie – o sufficienti – per organizzare un impianto narrativo solido, efficace; in altri casi l’autore possiede le competenze ma la storia che propone non è convincente. Inoltre, concetti quali il talento, o l’ispirazione, sono spesso abusati, utilizzati in modo improprio dall’autore: diventano alibi tardo-romantici per giustificare testi scialbi, banali o poco coerenti, privi di coesione. Credo che l’editor, colui che, con l’autore, crea una sorta di collaborazione finalizzata al miglioramento del testo, debba innanzitutto stimolare nell’autore la capacità immaginativa, renderlo consapevole che il punto di partenza per scrivere un’opera stia prima nel fatto di immaginare un mondo, una situazione, un dispositivo drammatico e, solo in un secondo tempo, di svilupparlo in forma scritta. Come in ogni forma d’arte – visiva, musicale – l’affinamento della tecnica (che richiede studio, prove e fallimenti, sperimentazione) è fondamentale per la creazione dell’opera, così nella scrittura è importante la coesistenza di immaginazione (intesa quale punto di vista sul mondo, su una situazione, sul nucleo) e di elementi tecnici. L’editor non dovrebbe mai stravolgere il testo: suo compito è annotare elementi di debolezza, suggerire soluzioni, consigliare senza modificare; l’autore è tenuto quindi a riscrivere, a ripensare, a rimontare il testo stesso; a sottrarre gli elementi non funzionali alla narrazione. L’editor deve quindi essere un cultore appassionato della scrittura, anche altrui, e, nel contempo, deve porsi quale critico asettico dell’opera stessa per intercettarne le debolezze, siano esse sistemiche o specifiche di quei microcosmi che chiamiamo frasi, periodi.

Ci vuole parlare di alcuni testi a cui ha lavorato recentemente e che le hanno dato particolari soddisfazioni?

Ricordo con soddisfazione I figli del mattino (Andrea Laiolo, Readaction Editrice, 2022), Io tanti, ma poi nessuno (Gian Ruggero Manzoni, Readaction Editrice, 2022), La sinfonia delle nevi (Alice de Vicariis, Readaction Editrice, 2023), La terza storia (Sabrina Sigon, Castelvecchi, 2022), Fuori amore (Luz Bisetti, Readaction Editrice, 2023).

In copertina: illustrazione di GIULIA POLIDORO

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