di VALENTINA DI CESARE
Fino a poco più di cento anni fa, l’Australia si presentava agli italiani come una terra ignota e lontanissima. Sconosciuta poco esplorata, percepita come distante non solo geograficamente. Con il passare del tempo, anch’essa si è trasformata in luogo di reale riscatto, di lavoro sicuro, di stabilità economica. Almeno fino al secondo dopoguerra però, i flussi migratori dall’Italia verso la più grande isola dell’Oceania non furono mai massicci, dunque dei primi italiani che vi si recarono nella seconda metà dell’Ottocento si sa molto poco. Da quel che risulta, nonostante la presenza di italiani in Australia si riscontri già da 1600 (galeotti, missionari, marinai) i primi arrivi più consistenti , come risalgono alla seconda metà del diciannovesimo secolo. Le zone di maggior provenienza dei primi emigranti erano Sicilia per il sud Italia, e Lombardia, Piemonte e Veneto per il nord. In particolare , per quel che riguarda la Lombardia, la zona della Valtellina vide la partenza di molti abitanti a causa di un fungo che colpì le viti della zona, distruggendo l’economia di molte famiglie. Quello degli italiani era un numero esiguo rispetto ai cinesi o ai tedeschi presenti nel nuovissimo continente e, a sua volta, all’interno di comunità così ristrette, erano pochissime anche le donne. A parte gli sparuti casi di musicisti ambulanti provenienti da Viggiano (Potenza) o figurinai del gesso provenienti da Lucca, la maggior parte degli italiani svolgeva in Australia lavori pesanti e manuali, e accettava salari bassi, cosa che provocava nei loro confronti sfiducia e sdegno da parte della società locale. La sporadica presenza di connazionali, spesso neanche riuniti in comunità organizzate e compatte, non facilitò per nulla eventuali movimenti migratori più massicci. A metà Ottocento, la scoperta di giacimenti d’oro nel territorio di Victoria e nel nuovo Galles del Sud diede tuttavia una grossa spinta all’emigrazione europea, e quindi anche italiana, verso il cosiddetto continente nuovissimo. Molti giovani erano pronti a improvvisarsi minatori pur di accaparrarsi la ricchezza promessa, ma giunti laggiù l’incantesimo e l’ebbrezza della partenza svanivano presto. A quei tempi infatti, non essendo ancora stato aperto il Canale di Suez, il viaggio dall’Europa all’Australia poteva durare dai tre ai cinque mesi, e le condizioni di viaggio erano estremamente precarie, al limite della tollerabilità umana. Delle funeste conseguenze di queste lunghe traversate della speranza, e delle difficili condizioni esistenziali e lavorative vissute dagli emigranti, parla il folgorante libro La follia del partire, la follia del restare. Il disagio mentale nell’emigrazione italiana in Australia alla fine dell’Ottocento dello storico e ricercatore Simone Varisco, edito da Tau nel 2016 per la collana ” Testimonianze ed esperienze delle migrazioni” dei Quaderni della Fondazione Migrantes. In poco meno di cento pagine, il volume racconta e insieme analizza il problema del disagio mentale presente tra gli emigranti italiani in Australia alla fine dell’Ottocento, facendo luce in maniera chiara e inequivoca su una delle tante storie sommerse che riguardano la nostra diaspora. Una importante ricerca storica quella di Varisco, costruita tra fonti d’archivio dimenticate e qualcuna addirittura inedita, ma anche un interessante focus su tematiche sociologiche e psicologiche che si pongono importanti (e ancora molto attuali) quesiti sui rischi di chi emigra, in particolare sull’esposizione al disagio psichico, allo sfinimento mentale, temuto (ancora oggi) come uno stigma. Da una parte il peso dello sradicamento dalla propria terra, dell’allontanamento dalla famiglia, dagli affetti più stabili, dai punti di riferimento sociali e culturali di sempre e, dall’altra, le numerose difficoltà di ambientamento nel paese di accoglienza, da quelle meramente logistiche alle tante legate alla sfera emozionale. A far emergere pian piano questa pagina di storia poco nota, intervengono testimonianze tratte da documenti assai diversi tra loro: si passa da lettere che gli emigranti inviavano ai loro parenti, a relazioni e documenti rinvenuti negli archivi degli ospedali psichiatrici dove erano internati, i cosiddetti asili dei lunatici . Oltre alla disperazione che li attanagliava, alla condizione inconsolabile di trovarsi con il corpo imprigionati in un luogo odiato e con la mente ed il cuore proiettati in Italia, i testimoni in oggetto rivelano nelle proprie dichiarazioni quale grande ostacolo fosse per loro la lingua inglese, idioma perlopiù sconosciuto e rifiutato, tramite il quale non era mai stato possibile per loro, farsi capire, sia appena giunti che dopo anni di permanenza. Ma chi erano questi internati? Perlopiù si trattava di uomini arrivati in Australia da soli, ma anche donne giunte spesso dopo un matrimonio contratto per procura con uomini prima di allora mai incontrati e molto più anziani di loro. Varisco si concentra in particolare sulle storie degli emigranti italiani provenienti dai territori dell’arco alpino prossimi al Ticino e dei ticinesi della Confederazione Svizzera. Trattandosi di migrazioni avvenute nella seconda metà dell’Ottocento, dunque a Unità nazionale avvenuta, l’autore fa notare come tra le persone comuni l’idea di appartenenza fosse ancora legata al piccolo villaggio o alla città di partenza invece che alla “nazione”, tanto più tra il proletariato agricolo, quello maggiormente coinvolto nelle migrazioni economiche e, per di più, molto lontano dalle istanze risorgimentali.
L’arrivo in Australia si tramutava ben presto, a parte rare eccezioni, in pentimento. L’idea di recarsi in Australia era finalizzata ad una permanenza temporanea, poiché ai più quella terra appariva inospitale, ma molti degli emigranti non riuscirono mai a tornare e restarono intrappolati laggiù, in una sorta di eterno esilio. In tal senso colpisce una testimonianza raccolta dallo studioso, legata ad una lettera ricevuta da un emigrato italiano in Australia, letta pubblicamente all’oratorio del paese di Maggia, nel Canton Ticino. L’uomo racconta le vere condizioni in cui si vive laggiù e scoraggia tutti i compaesani che avevano cominciato a fare un pensiero sull’emigrazione in Australia. Gli emigranti di fine ottocento si dirigevano principalmente nel Victoria (Australia sud-orientale), zona di miniere aurifere, dove col passare del tempo sorsero diverse strutture sanitarie che accoglievano i cosiddetti “lunatici”. Sotto questa definizione erano raggruppati senza distinzione alcolizzati, piccoli criminali e persone colpite da depressione e disagio mentale. Uno degli asili più noti e longevi fu lo Yarra Bend, nei cui archivi l’autore del volume ha attinto, ma non solo lì. Su diverse cartelle cliniche i pazienti vengono presentati come affetti da melancolia, che oggi definiremmo depressione. La condizione delle donne italiane emigrate in Australia fu altrettanto tragica. Doppiamente vittime di razzismo, sia per appartenenza al cosiddetto “sesso fragile” e sia per lo stigma di essere italiane, trovavano impiego nelle piantagioni di canna da zucchero e di tabacco, oppure lavoravano come domestiche o balie per famiglie facoltose e sposavano italiani. Rare furono le unioni tra uomini italiani con donne del posto, mentre sono più numerosi i casi di unione con irlandesi (le comunità italiane e irlandesi in Australia condividevano spesso gli stessi luoghi di culto, nonostante divergenze di vario tipo). Anche in merito ai matrimoni ( sia misti sia tra connazionali) e alle conseguenti gravidanze, la ricerca dell’autore fa riemergere episodi molto tristi, legati all’internamento di donne rinchiuse a seguito di diversi parti, morti premature dei propri figli, aborti.
Tra cibo scadente, sistemazioni fatiscenti, lavoro usurante, debiti contratti lungo il viaggio con i procuratori che avevano fornito loro impiego, i primi emigranti italiani in Australia, a parte rari casi, non ebbero esperienze positive e spesso non riuscirono mai più a tornare nel loro paese nativo. Il libro di Simone Varisco racconta con cura una pagina dimenticata del nostro passato migratorio e soprattutto analizza alcuni esiti legati ai movimenti migratori di cui si parla sempre molto marginalmente. Un tema, quello che emerge dalle ricerche di Varisco, ancora di grande attualità, specialmente alla luce degli ultimi tragici accadimenti relativi allo sfruttamento della manodopera straniera nelle imprese italiane.