Inediti

La telefonata

di EDVIGE GIUNTA

Novembre 1991. Non guardo il telefono, anche se la mia mano è appoggiata sul ricevitore. Seduta a gambe incrociate sul pavimento del salotto resto immobile, con gli occhi fissi sul disegno irregolare del tappeto consumato dal tempo. Anche se la densa luce grigia che filtra dalle finestre evoca la fine della giornata, non può essere più tardi delle quattro. Sicuramente sto tenendo in considerazione le sei ore di differenza tra l’Italia e gli Stati Uniti.

Sono passati solo tre mesi da quando mi sono trasferita da Long Island a Schenectady. Eppure per la prima volta da quando sono arrivata negli Stati Uniti sette anni fa mi sento radicata. Non ho mai vissuto in un posto come questa città americana post-industriale. Schenectady ha qualcosa di vecchio, triste e familiare. Qui il passato è un sottile strato di polvere che sfugge all’occhio, ma le sue particelle galleggiano nell’aria che si respira. Quando la luce del sole invade le stanze, la fisicità dei corpuscoli ci sorprende. Sono ovunque. Ci si chiede: “Come ho fatto a non vederli prima?”.

Il nome Schenectady deriva da skahnéhtati. Significa “oltre i pini”. Questa è una terra di invasioni e colonizzazioni. Un tempo era terra dei Mohawk. Poi arrivarono i coloni olandesi. Molti nomi di strade hanno ancora il prefisso “Van”. Nel XIX secolo la città divenne un vivace centro manifatturiero. Vi affluirono immigrati dall’Europa, compresi gli italiani.

Schenectady è una città raccolta in un sogno. Palazzi fatiscenti, alcuni dei quali adibiti ad alloggi per studenti, si aggrappano a ricordi di altri tempi. Quando non si presta attenzione, le case sussurrano segreti. Che cosa? Che cosa hai detto? Troppo tardi. Le case si zittiscono.

È l’inizio dell’estate quando vengo a cercare un posto dove vivere. Un collega mi mostra un palazzo di proprietà dell’università dove insegnerò. Grandi scale ornate con gradini rotti salgono da un salone un tempo magnifico, con pavimenti scricchiolanti e pittura sbiadita alle pareti, soffitti alti tracciati da crepe serpentine, lampadari mutilati. L’odore di muffa, di decadenza, di cose perdute e di persone scomparse da tempo, mi avvolge. Suggestionata, mi aggiro per le stanze dove gli echi sommessi della musica dei balli delle debuttanti sono sospesi nell’aria densa e stantia. Mi immagino di vivere in questa casa. Il salone si riempie delle chiacchiere di amici che non ho ancora conosciuto. Una ciotola di ceramica siciliana dipinta piena di pasta alla puttanesca troneggia su un tavolo invisibile. In sottofondo musica italiana senza suono. Io e i miei ospiti senza volto beviamo Corvo rosso da bicchieri vuoti. Quando se ne vanno, mi ritiro nella mia stanza mentre la casa ripiomba nel silenzio e nell’abbraccio dei fantasmi.

Mentre mio marito chiacchiera con il collega, io salgo al piano di sopra. In una stanza buia, mi trovo davanti a una cucina arrugginita, sicuramente inutile. La guardo con affetto, come se riconoscessi qualcuno che un tempo conoscevo ma che avevo dimenticato. In questa stanza desolata, le voci dal piano di sotto risuonano lontane e ovattate. L’affitto è di soli 500 dollari al mese, pari o inferiore a quello che dovrei pagare per un semplice appartamento con due o tre camere da letto in una casa bifamiliare. Potrei vivere qui. Potrei.

Alla fine abbandono al loro destino la cucina, il salone, i muri screpolati, i pavimenti scricchiolanti, le scale malridotte e gli ospiti invisibili. Non posso. Non posso vivere da sola in questa casa. E così la ricerca riprende, finché non trovo una sistemazione più conveniente, un appartamento al secondo piano di una casa in un modesto quartiere. C’è abbastanza spazio: tre camere da letto, un soggiorno e una sala da pranzo di medie dimensioni, un portico e un piccolo studio. Ma non dimentico la villa. La desidero, rimpiango di non averla scelta. Ai nuovi e ai vecchi amici racconto la storia di quando l’ho visitata e di come sia quasi diventata la mia casa. Ogni tanto giro per il campus universitario alla sua ricerca, ma non la trovo mai.

Schenectady è un grande cambiamento rispetto a Miami, dove ho trascorso i primi sei anni della mia vita negli Stati Uniti. Miami era il paese dei sogni. L’estate interminabile cancella il ciclo delle stagioni a cui ero abituata. Tra palme e tramonti surreali, mi ero lentamente distaccata dalla mia Sicilia, dal mio passato, da Sonia.

A Miami mi rifaccio una vita, mi reinvento attraverso una nuova lingua. Sposo un collega. Abbiamo una figlia. Otteniamo il dottorato. Poi ci trasferiamo a Long Island, a Southampton, una città abbandonata dai suoi cittadini estivi durante il gelido inverno. Mio marito è benvoluto all’università dove insegna. C’è la promessa della residenza permanente per entrambi. Potrei rilassarmi nei ritmi semplici e tranquilli della vita domestica. Ma sono una donna in fuga.

Quando ci trasferiamo a Southampton, pochi mesi dopo aver terminato la mia tesi di dottorato, non ho l’esperienza e l’autodisciplina necessarie per dedicarmi alla ricerca e alla scrittura al di fuori dei miei studi universitari. Mi perdo nel vuoto di giornate non strutturate.

La lettura e la scrittura spariscono dalla mia vita, anche se ogni mattina mi siedo al tavolo della sala da pranzo, sfogliando con riluttanza il dattiloscritto della mia tesi. Le parole sulla pagina si fondono l’una nell’altra, il loro significato è criptico, scivoloso. Le mie giornate trascorrono nella morsa rassicurante delle faccende domestiche in cui mi rifugio, grata per la loro monotonia, i loro risultati fugaci.

Passo l’aspirapolvere sui pavimenti due volte al giorno. Spolvero. Cucino. Riempio la lavastoviglie. La svuoto. Faccio il bucato. Stiro. Ordino armadi, ripostigli, cassetti, seguendo un ciclo rigoroso per stabilire un ordine che fortunatamente si disfa e richiede presto il mio intervento, il mio supremo ordinare e riordinare. Sono Penelope. Sono Sisifo. Sono Tantalo. Le stanze immacolate non rivelano il mio caos interiore ai visitatori occasionali, vecchi amici di Miami e della Sicilia che si sono trasferiti a New York. Queste visite durante il fine settimana offrono solo un sollievo temporaneo. Cuciniamo cibo italiano e restiamo alzati fino a tardi, bevendo vino, ridendo, a volte cantando.

Di notte, resto sveglia, attenta ai sussurri della casa silenziosa. A volte non riesco a sopportare di rimanere a letto. Vado in punta di piedi verso il soggiorno buio. C’è qualcuno seduto sul divano che mi guarda?

Vado in bagno. La luce rimane spenta. Per ore mi siedo sul pavimento, appoggiata al muro, trovando conforto nel tocco freddo delle piastrelle e nel vento che ulula contro i vetri della finestra. Ingoio i suoni della notte, i lamenti della vecchia casa amplificati dall’inquietante silenzio.

Davanti allo specchio sopra il lavandino di porcellana rosa, fatico a riconoscere il volto della sconosciuta riflesso sulla superficie argentea. La bocca del volto nello specchio si apre. Chi c’è dietro di me?

La disperazione che mi strangola sembra non avere una ragione, un’origine. Una tristezza inesorabile e inspiegabile si è diffusa, densa come un buon olio d’oliva. A Miami avevo intravisto questa tristezza strisciante. Mi aveva bloccata, sorprendendo me e mio marito, che ne era sconcertato, quando mi usciva fuori in sfoghi di breve durata. Ora mi reclama con audacia e io mi arrendo.

Mia figlia, la mia stupenda figlia, una bambina paffuta con una personalità allegra, mantiene viva la speranza, mi fa sorridere in questi momenti di sconforto. Nelle giornate calde, spingo il passeggino nella nostra strada vuota e ci dirigiamo verso Main Street, il centro della città, con i suoi negozi alla moda e i suoi caffè.

Mi siedo su una panchina mentre la mia bambina corre in giro. Grida di gioia e di sorpresa, indica un cane, una macchina che suona il clacson. Seguendo ogni suo movimento, annuisco e sorrido, la prendo in braccio e bacio le sue guance morbide e rotonde, gli strati di ciccia del collo, le sue mani piccole e veloci. Quando le faccio il solletico, ride di pancia e mi avvolge le sue braccia paffute intorno al collo. È così morbida, così dolce, così pura.

Quando si stanca, la metto sul passeggino. Torniamo a casa, in quella casa piena di mobili altrui e di ricordi che inconsciamente evito. Sulla via del ritorno, ci fermiamo al negozio di alimenti biologici. Con una mano sul manico del passeggino, faccio girare il portaspezie e scelgo piccoli barattoli di origano, rosmarino e cannella, gli aromi della mia isola.

Di tanto in tanto si risveglia in me una sopita voglia di vivere. Mi spinge a cercare una via d’uscita da questo torpore, da questo luogo alieno. I libri mi chiamano e torno a leggere: il libro di memorie di Sandra Mortola Gilbert, Wrongful Death, una storia dei ritmi incessanti del lutto, di come combattiamo il dolore della perdita e di come dobbiamo aprirci al suo flusso. Non ho idea che tra qualche mese mi siederò sul pavimento di una vecchia casa nella città natale di Daisy Miller, pronta a fare una telefonata.

Non penso a Sonia. Mai. O almeno non ricordo di aver pensato a lei. Non ricordo di essermi chiesta dove sia, come stia, se si stia chiedendo perché non ho chiamato o scritto per oltre due anni.

E poi, a fine primavera, ricevo due offerte di lavoro: una posizione di visiting presso un ricco college di arti liberali a Schenectady e un lavoro di ruolo presso un community college di Long Island. Il mio mentore mi ricorda che il lavoro a Schenectady mi darà il tempo per la ricerca e la scrittura che il carico di insegnamento di nove corsi all’anno presso l’università comunitaria non mi permetterebbe. Così dico di no al lavoro a Long Island. Sto pensando al futuro. Ma c’è dell’altro, anche se per ora non mi è chiaro. La città abitata dai fantasmi mi chiama.

Sarà complicato, ma io e mio marito abbiamo elaborato un piano. Mia figlia starà con lui in un appartamento in affitto negli Hamptons fino al giorno del Ringraziamento, quando la scuola materna del college di Schenectady avrà un posto per lei. Questa separazione temporanea è la cosa più difficile: mia figlia ha solo due anni e mezzo. Ma lei e mio marito verranno ogni giovedì sera e resteranno con me fino a domenica pomeriggio. È solo per un paio di mesi, mi dico. E a maggio, quando finirà la scuola, mio marito lascerà gli Hamptons e si trasferirà a Schenectady.

Mi piace tornare in classe, a insegnare James Joyce e Sylvia Plath. La tristezza paralizzante che mi affliggeva a Southampton comincia ad attenuarsi. La nuova solitudine è stranamente tollerabile, anche se mi manca terribilmente mia figlia.

Ricomincio a scrivere, non su Joyce, l’argomento della mia tesi di dottorato, ma sulle donne italoamericane. Sono attratta da queste scrittrici con le quali condivido la sensazione di aver tradito, ma anche di essere stata tradita dal nostro Paese, e la nostalgia, a volte silenziosa, a volte tumultuosa, per qualcosa che abbiamo irrimediabilmente perso.

La mia mano suda mentre la premo sul ricevitore. Cosa mi porta a questo momento? Un ricordo? Una foto? Il setacciare vecchie carte e lettere? Mangiare l’insalata di uova? Tagliarmi un dito mentre affettavo le carote? Un sussurro della casa? So solo che inizio a comporre lo 011 39 051….

Mi sento come in un sogno ricorrente in cui devo chiamare disperatamente qualcuno – non so chi – e devo usare uno di quei vecchi telefoni neri a rotazione, come quelli che avevamo quand’ero bambina in Sicilia. Nel sogno, comporre il numero completo è impossibile. Le mie dita sono intorpidite. Tremano e non riescono a spingere la manopola fino in fondo. Ogni volta perdo la presa e la manopola scivola indietro, costringendomi a ricomporre e a fallire ancora e ancora, ripetendo nella mia testa un numero misterioso. Piena di terrore, dimentico, ricordo e poi dimentico di nuovo.

Il telefono che uso oggi è a tasti, ma premere i numeri richiede tutta la mia attenzione. Tengo il ricevitore in una mano, tremando, inghiottita da ondate di nausea. Ho la bocca secca. Mi lecco le labbra, mi raddrizzo in attesa.

Lo sguardo si rivolge al disegno del tappeto blu sbiadito come se cercasse rassicurazione, mentre il ricevitore preme forte contro l’orecchio.

Il telefono squilla all’altro capo, il tono italiano, lento, un tempo familiare e ora così estraneo, così remoto.

Pronto? Dice una voce maschile.

Faccio un respiro profondo.

Forse è il tuo ragazzo. L’ultimo.

La mia bocca si muove, emette suoni. Mi sento parlare come se la mia voce provenisse da un luogo molto lontano. Dico “Pronto”. Dico che sono una tua amica, che ti sto chiamando per sapere di te. Notizie di Sonia. Questo è ciò che dico. Chiamo per avere notizie di Sonia. Non chiedo di parlare con te. Non chiedo come stai. Come potrei non saperlo?

Dovevo già saperlo quell’estate di tre anni fa, quando non sono venuta a trovarti a Bologna, quando non ti ho chiamato per dirti che non sarei venuta. Dovevo saperlo quando non ti ho scritto.

Un lungo silenzio all’altro capo. Poi la voce maschile che arriva da tremila miglia di distanza si abbassa. Il tono è quasi di scusa quando la voce finalmente dice: “Sonia è morta tre anni fa.”

Sonia è morta tre anni fa.

La voce è gentile.

“Mi dispiace….”

Le sue parole pesano tra noi, questi due estranei che ti hanno amato, Sonia, metà siciliana e metà svizzera, artista, figlia, sorella, zia, amante, amica.

Non ricordo cosa dico o quanto tempo rimango al telefono. Cosa c’è da dire a quest’uomo che è stato al fianco della ragazza che ho amato sempre e che mi ha amato così tanto, la ragazza da cui mi sono allontanata quando stava morendo?

Forse dico grazie o arrivederci o qualche altra parola di circostanza. La mia mano si abbassa per riagganciare il ricevitore al telefono, come se attaccassi l’ultimo pezzo di un fragile reperto archeologico. Devo posare l’oggetto con estrema cautela, trattenendo il respiro, come se fosse l’atto più vitale, l’ultimo gesto significativo che mi resta da compiere in questa vita.

Lo faccio.

Lo metto giù.

Questo momento, questo singolare momento in cui il tempo mi attraversa con tutte le decisioni e le indecisioni che mi hanno portato a fare questa telefonata in ritardo, questo momento non si ferma. È affamato e feroce. Mi vuole. Continua a crescere, infiltrandosi nei tendini, nei muscoli, nelle ossa, cercando un punto di ingresso nel flusso sanguigno, finché non lo trova.

E allora il mio corpo si sgretola. Incoerente. Un pasticcio. Arti e organi sparsi su questo tappeto blu sbiadito in questa stanza di questa città straniera dove comincio a ricordare, dove la verità che ho seppellito per tre anni è finalmente esplosa.

E quello che la mia gola spinge fuori dalla bocca non è pianto. Non ci sono singhiozzi, né lacrime, né suoni riconoscibili di dolore. È un altro suono primitivo.

Le parole escono fuori. Incandescenti. Ora bruciano. Le sento. Sento queste parole, le vedo. Le tocco. Sono su di me.

E lei è morta. Sonia.

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In copertina : illustrazione di BARBARA DI BERNARDO

* Edvige Giunta ringrazia Valentina Di Cesare, Emanuele Pettener, Ilaria Serra e Michela Valmori per lo spazio creativo vitale che hanno creato per le scrittrici italo americane, incluse quelle che, come lei, sono diventate italo americane in età adulta. E’ grata per la loro traduzione di “The Telephone Call,” un estratto dal manoscritto “No Confetti for the Dead”. Inoltre vorrebbe ringraziare Cettina Morreale per il suo prezioso aiuto.

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