Arti, Interviste

“L’Italia che partiva”: al Galata Museo del Mare la mostra di Giovanni Cerri

di VALENTINA DI CESARE

Si intitola “L’Italia che partiva. Via mare verso l’America” la mostra dell’artista milanese Giovanni Cerri, e ad ospitarla dal 14 marzo al 14 aprile 2024 è il Galata Museo del Mare di Genova. Curata dalla storica dell’arte Barbara Vincenzi e sostenuta dal Museo Italo Americano of San Francisco, l’esposizione (venti opere realizzate in tecnica mista su tela o tavola e datate 2023) tratteggia con spiccata sensibilità le storie di uomini e donne di qualsiasi età, sesso e provenienza che, spinti dalla speranza di una vita migliore, tra la fine del XIX° e l’inizio del XX° secolo intrapresero il grande viaggio verso l’America, partendo dai quattro porti d’imbarco autorizzati di Genova, Napoli, Palermo e Messina. Un viaggio cruciale, decisivo, fondamentale, dopo il quale nulla più sarebbe stato uguale a prima, indipendentemente dagli esiti di ogni singola esperienza migratoria. Gente povera, umile, nullatenente: braccianti, operai, badanti, facchini, lustrascarpe, venditori ambulanti pronti ad affrontare la lunga e difficile traversata in condizioni difficili, al limite della sopportazione, persone disposte a respirare i vapori delle macchine e a dormire per giorni su sacchi di paglia sistemati in piccole cuccette di legno pur di lasciare un paese che non poteva offrire loro altro che miseria.

Arrivi e partenze

Un importante lavoro sulla memoria quello di Cerri, pittore in attività dal 1987 con mostre ed esposizioni in Italia e all’estero ( tra queste ricordiamo Parigi, Colonia, Varsavia, Rabat, San Francisco, Toronto, Copenaghen, solo per citarne alcune), che con quest’ultima mostra fa luce sull’epopea dei nostri emigranti ma non manca comunque di dialogare idealmente con la diaspora che attualmente coinvolge altri popoli del mondo, e che investe anche il nostro paese, divenuto in pochi anni, da luogo di partenze a luogo di approdi. Anche noi italiani partivamo, solcavamo oceani in lunghissime traversate che duravano mesi, verso l’America. Quell’America che ci accoglieva e che ci prospettava il sogno di una vita confortevole, ma anche la stessa che ci guardava con diffidenza e ripugnanza, afferma la storica dell’arte Barbara Vincenzi, curatrice della mostra che sottolinea come l’esperienza migratoria fosse sì ricca di speranze ma al contempo piena di difficoltà e di ingiustizie. Nel testo in catalogo Matteo Collura si focalizza, tra le altre cose, sui luoghi e le atmosfere legate alla partenza: Il porto di Genova, ultimo lembo della terra-madre prima dell’irrimediabile distacco; la nave-prigione che si allontana sotto un cielo complice, i fazzoletti rimasti a sventolare come i nomi urlati tra i singhiozzi; il mare tutt’intorno come uno spettacolare sogno agitato da presagi e sfolgoranti sorprese; le famiglie raccolte sul ponte di coperta, anche lì in base alla classe di appartenenza, alcun contatto, non sia mai, tra la prima e la terza; e l’avvistamento della terra promessa come un cosmo che prova a rinascere, annunciato dal febbrile battito d’ali dei gabbiani. E infine lo sbarco, e lo stupore di trovarsi – anche qui, dopo tanto navigare! – in mezzo a relitti che sembrano provenire da una moderna catastrofe che non conosce confini. E poi la città, il subbuglio dei palazzi, lo stupore di un progresso che all’apparire sembra fatto di frastuono e assurde prospettive.

Inspection card

L’intera narrazione visiva di Cerri è volutamente in bianco e nero, come se fosse essa stessa documento storico anche se c’è spazio per il colore in una delle opere, quella che più delle altre forse, guarda al presente e dialoga con esso. La mostra è un omaggio alle storie di migliaia di persone comuni, ombre che si incamminano in fila sui piroscafi, ma intende anche rendere omaggio a tre figure emblematiche legate all’emigrazione italiana: Ferdinando Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti (Nick and Bart), i due attivisti e anarchici italiani emigrati negli Stati Uniti (il primo operaio in una fabbrica di scarpe, il secondo venditore ambulante di pesce) che nel 1927 furono condannati alla sedia elettrica per l’omicidio di un contabile e di una guardia del calzaturificio “Slater and Morrill” di South Braintree nello Stato del Massachusetts, per poi venire assolti cinquant’anni dopo dal Governatore Michael Dukakis; il terzo omaggio è rivolto a George Moscone, il sindaco di San Francisco di origini liguri, progressista e difensore dei diritti civili ucciso nel 1978 insieme all’attivista Harvey Milk, da un ex consigliere comunale.

Nick and Bart

La mostra di Giovanni Cerri sarà visitabile fino al prossimo 14 aprile dal martedì – venerdì dalle 10.00 alle 18.00 mentre sabato, domenica e festivi gli ingressi saranno dalle 10.00 alle 19.00. L’esposizione è stata resa possibile grazie alla collaborazione con il Museo Italo Americano of San Francisco e al sostegno di Valla Morrison & Schachne Inc. PC, Mediafilm, Officine Mara, ARAG e Axa e Gec &co Intermediazioni assicurative. Durante la mostra verrà proiettato il video che il regista Mauro Conciatori ha girato nello studio di Giovanni Cerri sul progetto della mostra al Galata Museo del Mare.

Da dove è nata l’idea di raccontare, attraverso la sua arte, la diaspora degli italiani in America?
L’idea della mostra è stata coordinata con il Museo Italo Americano di San Francisco, città di tanti nostri arrivi in epoca lontana, e la curatrice della mostra, Barbara Vincenzi. Abbiamo pensato di unire due realtà museali di due città significative per la nostra emigrazione; così poi, conoscendo il Galata Museo di Genova, abbiamo proposto il progetto ed è stato molto ben accolto. 

Ci sono eventi o episodi familiari o personali che la legano a questo tema?
Direttamente della  mia famiglia non ne sono a conoscenza, almeno fino ai nonni e bisnonni, non so più in là nel tempo se vi siano stati dei casi di emigrazioni oltreoceano. Comunque si parla di circa 8 milioni di emigranti tra fine ‘800 e inizio ‘900, dal Canada all’Argentina. Un esodo importante, un’altra nazione che ha trovato altrove una terra.

A quale tipo di materiali ha attinto per la realizzazione delle opere?
Mi sono documentato guadando foto, qualche spezzone di film muto, cartoline, scritti, certificati, documenti, manifesti pubblicitari. Ho deciso subito che avrei lavorato in bianco e nero, il non-colore dei “flash back”, del ricordo, di ciò che è avvenuto prima. 

Quali sensazioni ha voluto maggiormente tratteggiare all’interno dei suoi dipinti? Su quale aspetto del fenomeno si sono concentrate maggiormente le sue istanze creative?
I volti, gli sguardi, i gesti, le folle; le tante persone che partivano con le loro pesanti valigie, le visite mediche, lo smarrimento anche, davanti a un viaggio e a un futuro ignoto, in un Paese lontanissimo, con usi e costumi assai differenti. Ho pensato a quella gente che per la maggior parte non parlava la lingua italiana ma i dialetti, in taluni casi si capivano a stento. L’Italia era ancora un’espressione geografica, ma “bisognava fare gli italiani”, dopo aver messo insieme le tante “italie” di quell’epoca. La mostra perciò ha un taglio documentaristico, è oggettiva nel porre lo sguardo e l’attenzione su una selezione di immagini che ricostruiscono, in sintesi, l’atmosfera di quei decenni.

 In tema di emigrazione la memoria collettiva italiana sembra non essere totalmente consapevole della portata del fenomeno diasporico Lei è d’accordo?
Assolutamente d’accordo, indirettamente la mostra parla anche della questione dei migranti di oggi, ricordando che c’è stato un tempo in cui anche noi partivamo per mare, in massa. Spesso ci si dimentica di chi si è stati, il proprio passato. Le prime generazioni dei nostri antenati non ebbero vita facile, come si sa. La diffidenza verso il diverso, verso chi proviene da altre culture costituisce una costante dell’argomento. Oggi, siamo noi, sulle nostre coste, a vedere gli arrivi (quando le barche non affondano prima, purtroppo, come tante volte succede) di molte persone. L’uomo da sempre si sposta, e si sposterà, in cerca di un futuro migliore.

Solo uno dei dipinti della nostra è a colori. Come mai?
Quando ho terminato i lavori in bianco e nero, mi sono accorto che mancava qualcosa; mancava il presente. Allora ho dato un’opportunità anche allo spettatore di oggi di avere una “finestra” dove guardare; così il quadro diverso è a colori, molto grande, con un linguaggio quasi astratto, molto libero. E’ lo spazio dove poter vedere, senza alcuna descrizione, il proprio viaggio, anche solo interiore.

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