di EMANUELE PETTENER
[Questa conversazione, svoltasi tramite un fitto scambio di email in inglese e da me tradotta, venne pubblicata nel 2006 sul blog Vibrisse; successivamente, nel 2014, venne ripresa dal Blog di Priamo. Helen Barolini ci ha lasciato il 29 marzo 2023 a 97 anni, e sono felice di rendere omaggio su Strade Dorate a questa straordinaria pioniera della narrativa e degli studi italoamericani. Rispetto all’originale, ho apportato minime correzioni e aggiornato le pubblicazioni italiane. Buona lettura].
Helen Barolini, nata a Syracuse (New York) il 18 Novembre 1925, è autrice, tra le varie cose, dei romanzi Umbertina e Passaggio in Italia (pubblicati in Italia dalla casa editrice salernitana Avagliano, con la traduzione di Giovanni Maccari, il primo in collaborazione con Susan Barolini). Nel 2004, curato e introdotto da Antonia Arslan per Guerini e Associati, tradotto da Cecilia Veronese e Giuseppe Crestani, viene stampato Chiaroscuro. Saggi sull’identità. Impossibile, infine, non ricordare qui uno dei testi fondamentali per gli studi italoamericani: The Dream Book: An Anthology of Writings by Italian American Women, pubblicato nel 1985 e poi in edizione riveduta e corretta nel 2001 da Syracuse University Press. Vincitrice di numerosi premi (tra gli altri l’American Book Award, conferitole dalla Before Columbus Foundation, e il Susan Koppelman Award, dall’American Culture Association, entrambi per The DreamBook), i suoi scritti sono apparsi sulle riviste letterarie più prestigiose d’America (incluse “Paris Review”, “New York Review of Books”, “New Letters”, “Cosmopolitan”). Moglie del giornalista e scrittore Antonio Barolini (1910-1971), ha tre figli (una dei quali è Teodolinda Barolini, fra le più apprezzate studiose di Dante in circolazione).
Signora Barolini, cosa significa, per lei, essere italoamericana?
Sono cresciuta a Syracuse, New York, e allora pensavo a me stessa come italiana, a causa del mio cognome: a scuola balzava agli occhi in mezzo alla maggioranza di cognomi anglosassoni o ebrei che, per me, erano più americani del mio. Mi ricordo ancora che, riempiendo i questionari, non sapevo cosa inserire nella casella “Nazionalità” – mi domandavo: sono americana, in quanto nata negli Stati Uniti, o italiana, per il mio nome, per la mia religione, per le mie origini? Non vivevo in un quartiere italiano e tutti i miei più cari amici venivano da altri background, tuttavia io mi sentivo differente.
Anche oggi l’italoamericano si sente differente?
Oggi, col multiculturalismo, la scoperta delle diverse etnicità, e anche il crescente consolidarsi dello spagnolo come seconda lingua, gli americani d’origine italiana non si sentono più isolati. La posizione politica, le star del cinema, il successo economico, e la grande popolarità dell’Italia dopo la seconda guerra mondiale, hanno fatto la differenza. Oggi la diversità etnica è celebrata – nei cibi, nei costumi, nella moda e via dicendo.
Quand’è che gli italoamericani hanno riscoperto se stessi?
La grande scoperta delle proprie radici italiane è stata realizzata dagli italoamericani che hanno combattuto in Italia durante la seconda Guerra Mondiale e sono poi ritornati per studiare in Italia. Negli anni ’60 e ‘70 il processo di reintegrazione del nostro patrimonio italiano fu profondamente stimolato dal Black Movement, che alimentò gli altri movimenti etnici e diede vita al multiculturalismo sia nella scrittura che nell’editoria.
Immagino che per i suoi genitori, la storia fosse ben diversa…
La mia famiglia italoamericana aveva sentimenti conflittuali nei confronti dell’Italia. Considerati i pregiudizi nei confronti degli italoamericani durante gli anni ‘30 – quando i film con gangster dal nome italiano erano diventati uno stereotipo accettato, la figura buffonesca del Duce governava un’Italia fascista, e la seconda guerra mondiale aveva reso quel Paese un nemico degli Stati Uniti – la diffidenza dei miei genitori è comprensibile. Tuttavia io restavo aggrappata alla mia sensazione che ci fosse qualcosa di più, qualcosa di meraviglioso da scoprire nella terra che i miei nonni avevano lasciato.
Quando arrivò in Italia la prima volta?
Nel 1948, all’età di 23 anni, con l’incarico di scrivere una rubrica – “Letters from Abroad” – per conto del “Syracuse Herald-Journal”. Arrivai nell’austerità di un’ Italia bombardata, sconfitta e sfinita. Ma il mio arrivo coincideva, come le dicevo prima, con una nuova era: l’Italia stava per essere riscoperta dagli americani. Gli ex-soldati italoamericani stavano ritornando in Italia per studiare, entrare nelle scuole di medicina, scrivere, sperimentare per la prima volta un’Italia che era qualcosa di più del posto arretrato e povero dal quale i loro padri e i loro nonni erano fuggiti – o del ridicolo regime satireggiato da Charlie Chaplin nel film del 1930 Il Grande Dittatore. Alfred Kazin racconta nella sua autobiografia che, appena finita la guerra, ricevette la borsa di studio Guggenheim e partì per l’Italia: nel 1947 “la nave per Genova era zeppa di italoamericani che portavano casse piene di radio, apparecchiature elettriche, sigarette. C’erano anche intellettuali antifascisti che ritornavano dal loro lungo esilio americano”. Malgrado le devastazioni, Kazin dice che per uno scrittore americano il quale la vedesse per la prima volta, “l’Italia era il paradiso”.
Anche per lei è stato così?
Quello che è accaduto a me è stata la nascita della mia vita creativa. Immersa in una cultura e in una lingua differenti, mi son trovata completamente riconnessa alle mie origini e ho scritto la mia prima poesia in un’intensa riscoperta della mia madre lingua. In un sonetto intitolato “Umbria”, che avrebbe dato il titolo alla mia prima raccolta, ho magnificato la semplice esperienza di trovarmi là.
Tra gli altri, quasi cent’anni prima, era toccato ad Henry James scoprire l’Italia.
Sì, ma per me l’Italia era qualcosa di più perché faceva parte di ciò che ero. Fino alla metà del ventesimo secolo fiumi di letteratura sull’Italia sono stati scritti da americani di qualsiasi estrazione – tranne che italiana! Erano l’elite d’origine inglese e gli intellettuali della società americana che andavano in Italia, che formavano le società dantesche in patria, che imparavano l’italiano e traducevano la Divina Commedia. Si pensi che a Boston, al tempo di James, il Circolo Italiano considerava coloro che erano di discendenza italiana non accettabili come membri: era un’istituzione limitata a persone colte e istruite che avevano viaggiato in Italia e apprezzavano le arti.
Amare l’Italia faceva parte della moda.
Assolutamente. Henry Adams, figlio di una stirpe illustre di studiosi e presidenti americani, arrivò in Italia nel 1860 a 22 anni per scrivere dispacci per conto del “Boston Courier”. Nella sua autobiografia nota che sua sorella Louisa “come tutti gli americani e gli inglesi di buona famiglia – era profondamente italiana”.
L’Italia, insomma, era una sorta di Arcadia per eletti…
Sì, l’Italia era una meta ed un magnete precisamente perché era così drasticamente l’Altro, così drasticamente il luogo dove quelli del Nuovo Mondo potevano pesare e misurare la propria personale idea di Se Stessi. Ma si badi bene, mescolato alla soggezione vi era anche un senso di superiorità morale, che nasceva dalla comparazione tra la loro nuova repubblica e le monarchie europee. L’Italia era schiacciata dal peso del suo passato, mentre l’America era la terra del futuro luminoso: benché alcuni vi siano rimasti, la maggior parte degli americani tornò a casa, col loro orgoglio e patriottismo rinvigoriti. Insomma, per i primi viaggiatori americani l’Italia divenne uno stato della mente, un’astrazione di nozioni, un modo d’essere – al massimo l’amata madre della civilizzazione occidentale – ma altresì un tormento, un enigma, un problema per chi aveva nel DNA un rigoroso temperamento nordico, opposto a quello meridionale, ovvero rilassato: “Oh, for a beaker full of the warm South” declamava Keats nella sua “Ode to a Nightingale” – e non intendeva solo il clima del sud ma l’attitudine più geniale e sensuale associata alle genti del Mediterraneo.
Le donne americane come hanno scoperto l’Italia?
Per molto tempo l’Italia è sembrato un sogno riservato agli uomini. Eppure anche le donne hanno scritto sull’Italia, e hanno descritto un’Italia che non era per soli uomini. L’esperienza italiana offriva alle donne una libertà d’espressione creativa e di stile di vita di cui non avevano goduto a casa. L’intellettuale e scrittrice francese Germaine de Staël nel romanzo Corinne, ou l’Italie [tradotto e pubblicato nel ’61 da Casini editore] disegnò l’Italia come la terra dove la donna di genio potesse diventare se stessa, un romanzo femminista che attraversò l’Europa e l’Atlantico, storia di una donna italoinglese che favorisce il suo lato italiano per realizzare i suoi talenti per la poesia e viene acclamata in trionfo in Italia. Influenzò donne del diciannovesimo secolo come Margaret Fuller, Emily Dickinson, Elizabeth Barrett Browning nel coltivare l’idea di un’Italia e dei suoi doni accessibili alle donne quanto agli uomini. In modi differenti e a differenti livelli l’Italia venne a significare lo svincolarsi da un certo controllo, da ciò che la Dickinson chiamava la svizzerità delle vite – così meccaniche, ordinate, blande come il formaggio nazionale.
Anche per lei è stato così?
Vivendo a Roma, sono diventata man mano più consapevole delle ombre dei Grandi che avevano camminato lungo le stesse strade, veduto gli stessi panorami, si erano colmati della stessa meraviglia. La terrazza del nostro appartamento dava sui giardini di Palazzo Barberini dove Milton, ospite del Cardinal Barberini, aveva passeggiato durante la sua visita a Roma nel 1639. Ogni giorno, accompagnando la mia figlia più giovane alla scuola conventuale di Trinità dei Monti, sbirciavo la stanza angolare che dà sulla Scalinata di Piazza di Spagna, nell’area conosciuta come “er ghetto degli inglesi”, dove Keats spese l’ultimo mese della sua infelice breve vita, gettando dalla finestra il triste cibo che gli veniva portato e gridando alla fine: “Severn… muoio!” al suo compagno Severn, il più magnanimo degli amici.
Lei sostiene che le donne americane e inglesi abbiano compreso l’Italia meglio dei propri conterranei uomini, o mi sbaglio?
Leggendo i resoconti dei viaggiatori maschi di 150 anni fa, si avverte una sorta di irritazione patriarcale: l’Italia sembrava sfidare alcune attitudini prettamente maschili, quali la condotta razionale, la logica, la regolarità. L’Italia non era ordinata. Vi erano una percepibile paganità e dissolutezza proprio nell’aria sonnolenta e snervante che sfidava la struttura patriarcale. Si avvertiva che gli italiani erano troppo individualisti, immaginativi, carichi di fantasia, e che la loro terra fosse più bella di quanto meritasse. Come una donna, forse.
Mi sta dicendo che Italia ha un’anima femminile…
Forse. E per questo, forse, i giudizi delle donne che han viaggiato in Italia sono stati meno duri, meno spaventati, di quelli degli uomini. Luther Terry, Nathaniel Hawthorne, Henry James, malgrado la propria antipatia per la Chiesa Cattolica Romana, supportarono il dominio papale sostenuto dagli stranieri contro il movimento indipendista italiano. Margaret Fuller, invece, partecipò con passione al movimento risorgimentale per la liberazione di Roma e l’unità d’Italia, e lo stesso, pur meno attivamente, fece Elizabeth Barrett Browning scrivendo da Casa Guidi a Firenze. Mentre gli uomini americani del diciannovesimo secolo tendevano a condannare le stagnanti condizioni politiche e sociali in Italia, le donne cercavano invece di capire le piaghe del Paese. Mark Twain sermonizzò incessantemente contro la superstizione e i mali della Chiesa Cattolica, ma Harriet Beecher Stowe avvertì i suoi rituali e cerimonie come un buon antidoto alla severità puritana. E la stessa Stowe era profondamente solidale con la causa indipendentista laddove Hawthorne, nello stesso periodo, vi era indifferente o anche ostile. Lui e molti altri pensavano che gli italiani non fossero adatti a governarsi da soli.
Anche le scrittrici italoamericane hanno avuto il loro bel da fare per salire alla ribalta. Lei per prima le ha tolte dall’ombra, antologizzandole nel suo Dream Book: an Anthology of Writings of Italian American Women. Ma cosa significa essere una scrittrice italoamericana, ammesso che lei si riconosca in questa definizione?
Non penso a me stessa come a una scrittrice italoamericana. Sono americana di nascita, scrivo in inglese, e certamente penso a me stessa come appartenente al mainstream della letteratura americana. Nell’Introduzione del mio Dream Book riguardo le scrittrici italoamericane scrissi proprio che “non intendevo relegarle in qualche scompartimento etnico separato all’interno del bureau della letteratura americana ma identificarle come risorsa di scrittura che è stata sottovalutata”. Ho situato in un contesto storico l’ambivalenza delle nostre vite quando la nostra identificazione risultava come “italoamericana”. Ma tale identificazione non è più rilevante – i nostri cognomi e il nostro materiale parlano per noi in molti casi, e in altri casi c’è stato il matrimonio misto, sicché italoamericano non è una definizione corretta.
Forse lo scrittore italoamericano più noto in Italia in questo momento è John Fante. L’ha mai incontrato?
Conosco e stimo il lavoro di John Fante. Non l’ho mai incontrato, era di un’altra generazione e viveva in California, e direi che la sua popolarità è dovuta all’enorme fortuna di avere trovato un supporter importante come Francesco Durante. Il segreto del successo di uno scrittore è che vi sia qualcuno che lo sostenga fermamente! Quello che manca agli scrittori americani di discendenza italiana è avere importanti critici letterari tra di loro che scrivano per pubblicazioni nazionali, non solo per riviste specializzate.
John Fante a parte, immagino che nella sua carriera abbia incontrato molti grandi scrittori…
Sì, ho incontrato molti scrittori, sia in Italia – attraverso mio marito Antonio Barolini che faceva parte integrante della scena letteraria italiana – che, seppur meno, negli Stati Uniti. Italo Calvino è stato mio ospite a una cena di Thanksgiving la prima volta che è venuto negli Stati Uniti, e ricordo d’esser stata invitata a pranzo a casa di Moravia e della sua partner d’allora, Dacia Maraini. Poiché mio marito era molto vicino a Eugenio Montale, ho avuto la possibilità d’essere uno dei primi traduttori dei suoi Xenia. Quando Antonio era corrispondente per “La Stampa” e vivevamo alla periferia di New York, i nostri vicini erano John Cheever e E.J. Kahn, coi quali eravamo amici. Mi è sempre piaciuto incontrare e leggere altri scrittori, e penso che uno possa sempre imparare dagli altri. Mi ricordo Moravia dire che tutta la letteratura è solo autobiografia a un livello più elevato. E io sono d’accordo.
In copertina: illustrazione di MASSIMO CARULLI