di VALENTINA DI CESARE
In uno dei suoi tanti aforismi la scrittrice statunitense Phyllis Grissim- Theroux afferma che “Inviare una lettera è un buon modo per andare da qualche parte senza far viaggiare altro che il cuore”. Non ho potuto non pensare a questa affermazione mentre leggevo Amore di terra lontana- Storie di emigranti attraverso le loro lettere. Pubblicato ormai più di vent’anni fa dall’editore Le Lettere, il libro scritto da Antonella Sbolci e introdotto dalla premessa di Leonardo Saporito e dalla prefazione di Giovanni Bacchelloni, passa in rassegna con molta cura e sensibilità l’imponente lavoro di corrispondenza epistolare con centinaia di emigranti italiani tenuto da Fedra Farolfi, presidentessa dell’ANFE (Associazione Nazionale Famiglie degli Emigranti) della provincia di Firenze. La Farolfi, tra l’altro nonna dell’autrice del libro, ha iniziato ad occuparsi di emigrazione per cause familiari. La donna era infatti imparentata con un prete missionario che negli anni ’20 del Novecento aveva lasciato l’Italia per la Cina; dall’Oriente lui le inviava lunghe lettere nelle quali raccontava con entusiasmo le sue vicissitudini in una terra così differente e lontana dalla loro. Attraverso descrizioni e aneddoti, l’uomo condivideva, seppure a una distanza incommensurabile, il proprio vissuto con la giovane Fedra, in cerca di una vicinanza che se non riusciva a essere fisica era mentale, convogliando su un foglio sensazioni, sentimenti e stati d’animo.
Leggere ai nostri giorni un libro in cui protagonista è la lettera appare forse troppo fuori tempo: la messaggistica istantanea e le email ci permettono, grazie all’uso di internet, di raggiungere chiunque e nell’immediato, indipendentemente da dove si trovi sul pianeta. I tempi lunghi dell’attesa tra l’invio, la ricezione, la risposta e la spedizione di rimando, l’esclusività delle parole scritte che occupano tutto lo spazio possibile, l’impossibilità di aggiungere o ritrattare dopo aver imbucato la busta: si tratta di sensazioni che non appartengono più al nostro presente. Ma senza abbandonarci a facili nostalgie, bisognerebbe focalizzarsi soprattutto su quel che ha rappresentato nei secoli il mezzo “lettera” per le migliaia di emigrati (non solo italiani) in tutto il mondo. Per la maggior parte delle persone che emigrava, la scrittura non era un atto quotidiano: moltissimi emigrati avevano un’istruzione assai carente (o non ne avevano affatto), svolgevano lavori che non prevedevano quasi mai l’uso della lingua scritta, e indirizzavano le loro lettere a parenti e amici che vivevano nella medesima condizione. L’appropriazione più consapevole dello strumento linguistico, in questo caso scritto, è avvenuta non senza fatica ed è andata di pari passo con l’acquisizione di molte conoscenze correlate gravitanti intorno a essa. Attraverso le lettere si comunicavano novità, incombenze, gioie, difficoltà. I sentimenti, che in molti non avevano mai osato esprimere oralmente, riuscivano pian piano a diventare parola scritta e, finalmente, a manifestarsi. Nel caso specifico delle lettere conservate e archiviate dalla Farolfi, la nipote Antonella Sbolci si è trovata a ricostruire un tesoro custodito gelosamente per anni, dove è palpabile la grande umanità di sua nonna e il suo impegno costante per l’ANFE. Le testimonianze giunte fino a noi sono assai varie: alcune curiose e commoventi, altre piuttosto dolorose e poco fortunate, tutte riconducibili al periodo del Secondo Novecento. Si tratta di persone di provenienza geografica e sociale differente l’una dall’altra, giovani e meno giovani, donne e uomini, che si sono rivolti alla Farolfi per un consiglio, una indicazione affidabile, un parere, Il viaggio per le persone che emigrano è un atto simbolico e catartico, che si carica sia di speranza che di paura. Quel che ci si lascia alle spalle è spesso un paese nei cui confronti si origina un sentimento contraddittorio: la patria è bifronte perchè da una parte è matrigna (in fin dei conti, per molti motivi si è costretti a lasciarla) ma dall’altra resta sempre il luogo del proprio ancoraggio identitario. La persona che emigra vive in sé sia la dimensione individuale che quella collettiva: il viaggio che compie, seppure si tratti di uno spostamento temporaneo, trasforma l’individuo e la sua identità. Questa identità si ritrova spesso a vivere una crisi: la separazione, il disorientamento, i momenti di solitudine uniti a quelli di soddisfazione fanno sì che il tempo dell’emigrante e il tempo della comunità che ha lasciato non seguano più lo stesso ritmo e si perdano. Le storie raccolte in questo libro mostrano ancora una volta quanto sia pericoloso semplificare un’esperienza così complessa e singolare come quella dell’emigrazione: dalle motivazioni scatenanti la partenza, ai ripensamenti, dalle coincidenze più o meno fortuite alle occasioni colte e mancate, dai sogni realizzati alle speranze disattese, ogni storia migratoria tratteggia una parabola universale e nel contempo unica. Tra la folta corrispondenza dell’archivio Farolfi spiccano storie struggenti e quasi incredibili, come quella di un fiorentino, decisosi finalmente a partire per il Brasile nel 1952 e imbarcatosi su piroscafo Corrientes. Costretto a scendere alla sosta di Las Palmas per un malore a bordo, l’uomo viene ricoverato all’Ospedale San Roque dove muore per ulcera. Sul quotidiano degli emigrati italiani a San Paolo, il Fanfulla, compare dopo qualche tempo una lettera di protesta scritta da alcuni passeggeri superstiti, anche loro a bordo dello stesso piroscafo, che lamentano un pessimo trattamento alimentare e morale ai danni dei viaggiatori; scrive alla Farolfi anche disegnatore meccanico di Caserta, le chiede se ci sono corsi di preparazione per persone che vogliono emigrare e che hanno già una formazione ; e ancora un uomo toscano che emigra a Caracas nel 1954 che a pochi mesi dal suo arrivo in Venezuela fa sparire le proprie tracce, non risponde per a moglie e figli nè alle sorelle, alla fine racconta a una sorella di essersi innamorato e confida la vicenda alla Farolfi, facendole sapere che sia lui sia la sua nuova moglie vorrebbero aiutare economicamente i familiari rimasti in Italia. Anche un altro uomo però emigrato in Urugay fa sparire le sue tracce: la moglie e la figlia lo cercano tramite la Croce Rossa ma senza successo; la coniuge è disperata e anche gravemente malata, dunque si rivolge anche alla Farolfi. L’uomo intanto ha cambiato vita e addirittura nome, tant’è che si firma Felipe Una delle lettere più belle è quella di una donna desiderosa di raggiungere il marito emigrato da tempo in Canada, ma soffre di una malattia ai polmoni e ha paura che non la facciano più partire, per questo contatta la Farolfi. Compaiono diverse lettere inerenti sbrighi burocratici molto lunghi, come quelli di un padre che deve raggiungere l’ Argentina per aiutare la figlia emigrata e sposata con un uomo malato e in fin di vita. Si deve recare immediatamente lì per aiutarla a gestire l’azienda di famiglia perchè la figlia non saprebbe come fare. La malattia per lavoro è al centro di numerose lettere, specialmente da parte di emigrati in Belgio e in Francia, perlopiù lavoratori in miniera. Seppure in maniera molto parziale queste lettere offrono un focus statistico piuttosto attendibile sull’accoglienza e sull’effettiva affidabilità dei datori di lavoro nei confronti della forza lavoro emigrata. In Africa e anche in Australia era più frequente che i datori di lavoro offrissero alloggi, dal Brasile invece venivano segnalati sempre numerosi problemi con ditte e società del posto. Molti furono i tentativi degli emigrati italiani di mettersi in proprio, tanti ebbero successo ma ci furono anche diversi fallimenti di attività imprenditoriali, e per questo molta gente rimpatria sconsolata. Un’altra storia che colpisce e commuove chi legge è quella di un maestro elementare fiorentino che emigra nel 1953 in Australia: decide di cambiare la sua vita e si affida a una delle tante società che offrono lavoro: quel che trova a migliaia di km di distanza dall’Italia però, si rivela molto diverso da quanto promesso e, caduto in depressione, non riesce neanche a destreggiarsi per trovare un lavoro di ripiego e attendere di poter tornare. E’ la madre dell’uomo a scrivere alla Farolfi per avere delucidazioni al fine di ottenere un rimpatrio rapido. Non mancano inoltre le testimonianze di spose per procura: una di loro nella sua lettera alla Farolfi sostiene di aver fatto il viaggio verso il Sud America con meridionali sporchi e maleducati ( si tratta di una donna fiorentina, emigrata in Perù insieme al figlio, in Italia esercitava il mestiere di ostetrica ma poi confessa a Fedra di aver cambiato completamente vita diventando una commerciante che organizza attività per emigrati italiani e inizia persino a fare radio. Tante altre ancora sono le vicende racchiuse in questo libro che, per gli studiosi di emigrazione, si rivela di interessa fondamentale perchè legato all’immenso e in parte ancora inesplorato patrimonio privato di lettere, cartoline e, più in generale, di corrispondenza postale tra gli emigrati e le loro famiglie o i loro amici.
Vale nuovamente la pena ricordare che l’archivio della filantropa e consigliera nazionale ANFE Fedra Farolfi, non è l’unico lascito che la donna ha elargito ai posteri. La Farolfi, ricordata da molti con l’appellativo di “Sorella degli emigranti” alla quale tra l’altro è stato intitolata, nel settembre 2021, un’area verde del parco di via del Saletto a Firenze, si occupò di organizzare per gli italiani espatriati diverse raccolte di fondi e corsi di lingua nonchè rese possibile la trasmissione di messaggi radiofonici registrati da familiari rimasti in Italia da far recapitare direttamente oltreoceano ai loro cari lontani.
IN COPERTINA: illustrazione di GIULIA POLIDORO