Libri, Ritratti d'autore

Emanuel Carnevali: la fame, il lavoro e la poesia.

di LISA DI BATTISTA

“Quando vedrai la materia annerire, rallegrati perché è l’inizio dell’Opera.
Nulla si compie senza il colore nero. Quando avrai visto il Nero stesso,
sappi che la bianchezza è celata nel suo ventre.”

(Michael Maier, Atalanta Fugiens)

La vicenda umana e letteraria di Emanuel Carnevali può ritenersi una esperienza originale ed unica. Carnevali ha appena sedici anni quando emigra in America ma la storia raccontata ne Il primo Dio inizia molto prima: fin dalle prime pagine, veniamo immediatamente presi per mano da una voce – ormai non più tanto giovane – che scrivendo di sé ci accompagna per un viaggio che forse non immagineremmo mai di fare. Il romanzo di Carnevali è prima di tutto una esperienza di solitudine e di distanza, emotiva ed insieme spaziale, declinate entrambe attraverso una scrittura magnifica e dolorosa il cui oggetto narrativo principe è la memoria autobiografica vera e viva dell’autore.
Seguiamo la sua vita di “orfano” – orfano emotivamente, spiritualmente e letterariamente – ancor prima che biologicamente. Emanuel, infatti, non crebbe realmente orfano dei genitori che anzi conoscerà entrambi (la prima sezione del libro, “Bianco”, è quasi interamente abitata dalla figura materna), anche se in momenti successivi della vita, come lui stesso racconta, i suoi legami familiari, benché non sempre stabili e quasi mai felici, si estendono anche ad altri membri della famiglia, la cui memoria trova, di volta in volta, più o meno spazio nel romanzo: si tratta della zia materna, della nonna paterna e del fratello.
Tuttavia, questi rapporti sembrano essere sempre mantenuti ad una certa distanza, per una propria volontà o per volere di qualcos’altro: qualcosa di esterno grava su queste esistenze, un destino, un fato eternamente infausto, un ribaltamento della Provvidenza manzoniana che qui assume la sua veste più negativa.


“Ma non potevamo amare nostro padre.” confessa ad un certo punto Carnevali, “Questa era la nostra grande tragedia. Qualcosa aveva decretato che nostro padre e noi due non dovessimo mai avvicinarci”.


Una Provvidenza, quella di Carnevali, che non prevede salvezza né redenzione o lieto fine; un destino che non provvede affatto ai suoi uomini ma anzi li lascia appunto abbandonati ed orfani. Una distanza, dunque, si diceva: una distanza destinata alla quale Emanuel si arrende, accettandola e quasi abbracciandola mentre da Genova parte, ancora ragazzino, per quell’America che tanto lo deluderà

Questa, dunque, era New York. Questa era la città di cui avevamo tanto sognato e questi erano i suoi favolosi grattacieli. Provai una delle più grandi delusioni di tutta la mia vita infelice”

lasciando dietro di sé tristissime dinamiche familiari fatte di maltrattamenti, vessazioni ed incomprensioni, oltre ad amori di tutte le sorti e non per ultimo un padre che sempre rappresenterà il suo contrappasso e il suo slancio negativo.
Con lo scorrere delle pagine, la storia di Emanuel, incredibilmente reale da non sembrare a volte quasi vera, diventa un precipitare continuo di tutti gli appigli: famiglia, fratelli, lavoro, amici, moglie, amanti. Tutto e tutti si accavallano e passano, lasciando come unica traccia del loro passare brandelli di memoria pazientemente ricuciti insieme da Carnevali, in pagine di enorme poesia e sofferenza. Ogni personaggio del romanzo è un attore muto o pittura, che non parla e non vive se non nel momento in cui Carnevali gli dà voce. Egli riesce con incredibile maestria ad estrarre la vita da ogni personaggio, più o meno familiare che sia, e a fermarla su carta con dei ritratti perfetti. Anche i personaggi secondari, in questo modo, diventano piccole scintille disseminate nella rete del testo.

Il ritmo della narrazione, complici frasi brevi e spesso epigrammatiche, ha un andamento veloce e leggero che fa da perfetto contrappeso al malumore nudo, a tutta la tristezza, al pianto, alla malinconia, alla povertà e alla solitudine di cui questa scrittura si nutre. Anche l’architettura testuale regge benissimo i colpi delle molteplici divagazioni intorno ai perni centrali dei singoli capitoli.
Ogni divagazione, in realtà, non è sentita qui come dispersione ma piuttosto come arricchimento narrativo; nonostante l’esubero di figure incontrate nel romanzo, le persone/personaggi sembrano infatti non essere mai troppi.

Il Primo Dio, questo incredibile romanzo di vita italoamericana ancora oggi inspiegabilmente troppo ignorata, si legge con l’appassionato piacere della grande letteratura perché ci si ritrova dentro molta di quella eternità riguardante le vicende umane che è la miglior parte dei grandi classici novecenteschi. Una vita unica ed originale, si è detto, ma soprattutto una esplosiva benché breve esperienza letteraria, quella di Emanuel Carnevali.

“Il mio lavoro è il mio delirio, il mio amore senza amore. Il mio lavoro era la mia vita, la mia crucis, la mia miseria e il mio odio

dice Carnevali mentre si trascina, capitolo dopo capitolo, attraverso l’incessante ricerca di un impiego odiato ma necessario, che viene sempre faticosamente trovato e sempre, poco dopo, irrimediabilmente perso. La fame, il lavoro e la poesia si intrecciano lungo tutto il romanzo come un grande fil rouge narrativo; queste sono le costanti ossessioni che assalgono Carnevali mentre vaga per le strade di NY (e anche poi, in parte, di Chicago):

“A volte invece erano le poesie che mi consumavano i pensieri, muovendosi come un esercito di formiche nel mio cervello oppure divorandomi come tanti vermi. Perché questa preoccupazione per le parole, pensavo, se non c’è nessuno che le ascolti?”

Caustico, disperato, pungente, sempre adeguato e profondo anche nella sua concisione, Carnevali tocca vette di poetica saggezza che dissemina nel romanzo per tutta la sua estensione. Al centro della sua vita e al centro esatto della sua opera c’è la letteratura pura e ancora di più la scrittura, questa creatura amata e respinta, che sarà sempre la vocazione di tutte le sue vocazioni: “Ma c’era qualche altra cosa. C’era sempre una piccola luce accesa, che mi guidava attraverso l’America, questo paese al buio. Sapevo di essere un poeta e covavo nel mio animo la voglia di scrivere”

L’esperienza letteraria italoamericana di Emanuel Carnevali esplode come un fuoco d’artificio tra le parti “Nero” e “Chicago” e lo ribalta dalla mediocrità della sua vita statunitense fino ai salotti dell’élite letteraria americana di quegli anni. In quegli anni, conosce e frequenta i maggiori poeti d’America, fra cui Ezra Pound, William Carlos Williams, Sherwood Anderson, Robert McAlmon ed ha parole per ognuno di loro. Essi, di converso, apprezzano la novità di questa sua scrittura che era insieme la lingua dell’esilio e della sua nuova “identità”, e si lasceranno provocare per tre anni dall’esplosione dell’ira nera del giovane straniero.

Se c’è una voce che dovrebbe essere ascoltata e ripescata dal mare magnum degli scrittori italoamericani, questa è proprio la voce di Emanuel Carnevali, una “nube nera pronta a trasformarsi in una fioritura di tuoni e di lampi”, carica di tutto il dualismo più autentico del vivere sospeso tra due mondi. Il poeta sognatore, il poeta dei conflitti e delle estreme contraddizioni che incontriamo nelle pagine de Il Primo Dio, (dio lui stesso, creatore ed insieme distruttore), avrà sempre questa voce nera, sgocciolante dello sforzo di trovare quelle parole che non si possono dire mai:

“Ho cose peggiori da dire e certamente anche Dostoevskij ne aveva, ma ci sono parole come canarini che uno strozza tra le dita, e queste sono parole che non si possono dire mai”.

(In copertina: illustrazione di Simona Damiani)

Potrebbe piacerti...

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *