di VALENTINA DI CESARE
Quando si pensa agli esodi migratori italiani, ci si figura principalmente nutriti gruppi di uomini e ragazzi pronti a svolgere ogni tipo di impiego, pur di trovare una stabilità economica e garantire sicurezza alle proprie famiglie. Tanti progetti di ricerca, specialmente quelli più recenti, stanno portando alla luce come, tra quelle migliaia di uomini, ci fossero anche donne con le stesse esigenze. Il bel lavoro a cura di Francesca Nussio è uno di questi: si intitola Donne d’oltre frontiera, Storie di migrazione tra Lombardia e Grigioni nel secondo dopoguerra. Il volume, edito da Viella nel 2020, è stato realizzato grazie al contributo dell’ Istituto di ricerca sulla cultura grigione. Il libro infatti raccoglie diciannove testimonianze di donne, perlopiù originarie della provincia di Sondrio (anche se non mancano alcune provenienti da altre zone della Lombardia), che da ragazze ancora nubili (alcune di loro non avevano ancora vent’anni all’epoca della partenza) emigrarono nel Cantone svizzero dei Grigioni, area della Confederazione svizzera vicina al confine nord ovest della provincia di Sondrio. Un confine di stato separava e separa tuttora valli periferiche, costellate di piccoli villaggi di montagna dove i ritmi di vita e le tradizioni non erano così differenti tra loro, nonostante una frontiera li dividesse. Le prime donne emigrate nel Cantone dei grigioni erano valtellinesi e iniziarono a lasciare i loro luoghi già da fine Ottocento. In generale e nel corso del tempo la Valtellina si è confermata come zona in cui le partenze erano numericamente più massicce. La ricerca di Francesca Nussio, che ha studiato Scienze Sociali a Losanna, si è focalizzata principalmente sull’emigrazione femminile avvenuta dopo la Seconda Guerra Mondiale, lasciandosi dunque alle spalle gli episodi migratori già avvenuti, che però non avevano mai raggiunto cifre significative. Questo piccolo esodo si concentra soprattutto sull’arrivo di lavoranti italiane che giungevano in Svizzera, principalmente nelle aree di Valposchiavo e Bregaglia. Si tratta di valli grigione che confinano a sud con la provincia di Sondrio, una vasta zona alpina di frontiera dove convivono da sempre cattolici e protestanti. Nel 1948, l’ accordo tra Svizzera e Italia per il reclutamento della manodopera, garantisce alla Svizzera un importante afflusso di forza lavoro; all’Italia il patto conviene sia per alleggerire la piaga della disoccupazione che dopo il secondo conflitto mondiale è ancora più grave , e sia, di conseguenza, per le rimesse che alleviano la brutta situazione finanziaria in cui versa il paese. Del resto, benchè non godessero di buona fama, dei “valeta” ( termine dialettale dispregiativo in dialetto grigione per indicare i valtellinesi) detti anche tschinggeli ( lavoratori italiani immigrati) c’era bisogno.
La curatrice del volume ha incontrato alcune tra le tante donne di oltre frontiera, quando ormai non erano più giovani (gran parte di loro era nata negli anni ’20) e attraverso le loro testimonianze orali ha raccolto dati interessanti che fanno incrociare l’esperienza personale con quella collettiva. Le donne intervistate hanno parlato quasi tutte in dialetto ( sia dialetti delle valli grigione sia dialetti italiani lombardi), in alcuni casi mescolando gli idiomi di provenienza e di arrivo. Dopo il 1945 a partire erano perlopiù adolescenti o giovani ragazze, molto provate, come tutti, dall’esperienza della guerra. Si sa che durante il conflitto le donne non combatterono di certo al fronte ma attorno ai generi di prima necessità. A molte di loro infatti era spesso affidato il compito di recarsi nelle maggiori città lombarde a procurarsi il poco cibo disponibile, per poi riportarlo nelle valli alpine di provenienza.
L’emigrazione dalle zone di confine lombarde verso il Cantone dei grigioni era già stata trattata da storici e ricercatori ma si era concentrata esclusivamente sulle partenze maschili, dunque Francesca Nussio ha il merito di aver riportato alla luce una vicenda che sarebbe andata perduta, tanto più perché, una volta sposatesi con persone del luogo, tutte le donne emigrate avevano abbandonato il proprio cognome e l’uso dell’italiano. Un altro tratto particolare di questo processo migratorio prevalentemente femminile è che le emigranti si trasferivano da aree periferiche e remote per andare a lavorare in altri ancora più isolate. Quando si pensa all’emigrazione degli italiani vengono subito in mente persone che cambiano totalmente ambiente e che, partite da piccoli paesi o da cittadine non particolarmente abitate, si trasferiscono in grandi aree metropolitane. Le donne di cui si occupa questo libro emigrarono in Svizzera per lavorare come domestiche, collaboratrici di cucina in alberghi e ristoranti, cameriere, aiutanti nelle attività agricole o di allevamento. Appena giunte, spesso tramite passaparola, le giovani venivano condotte a fare visite e radiografie, per accertarsi che fossero in buona salute o che non avessero malattie, anche contagiose. Nell’incrocio tra esperienze personali e sentimento collettivo legato al percorso migratorio, emergono elementi interessanti, che arricchiscono sempre di più la ricerca e la letteratura nell’ambito di studi sull’emigrazione, soprattutto perchè sono in grado di rilevare l’infinita pluralità dei suoi esiti. Quasi tutte le donne, parlando del proprio vissuto, hanno dichiarato di aver intrapreso l’esperienza senza prendere in considerazione neanche per un momento l’idea che ci fossero alternative per il loro futuro. “Era normale, era così per tutti”: un’affermazione che suona come lucida rassegnazione. A quei tempi, in particolare per le donne, dopo l’istruzione elementare di cinque anni non era quasi mai consentito proseguire con lo studio, che avrebbe comunque portato all’avviamento professionale. Al di là di questo assunto però, sorprende che queste donne abbiano raccontato con naturalezza le proprie condizioni lavorative vicine allo sfruttamento, definendole appunto accettabili proprio perchè usuali. Attraverso questa dura accettazione si sono materializzati certamente processi di crescita, acquisizioni di intraprendenza e costruzioni di reti sociali tra le emigranti. Molte di loro, lavorando all’interno di attività commerciali o di accoglienza, divennero nel tempo dei veri e propri punti di riferimento per gli abitanti delle valli grigione e per i visitatori abituali; ciò potrebbe essere considerato una sorta di riscatto, viste le condizioni di partenza. I loro rapporti con l’Italia invece, a parte rari casi, andarono scemando nel tempo, specialmente dopo la scomparsa dei genitori e dei parenti più stretti. La maggior parte delle famiglie da cui queste donne provenivano conobbe da vicino l’emigrazione. Fratelli, padri, cugini avevano già affrontato il percorso migratorio, alcuni in luoghi non troppo distanti da casa e per lavori stagionali, altri si erano imbarcati per raggiungere nazioni lontane, e nella maggiori parte dei casi le loro vite si sarebbero inesorabilmente divise.
Un libro dunque, quello della Nussio, scritto con precisione storica e distanza critica ma, nel contempo, con un sentito trasporto emotivo: le nonne dell’autrice erano anch’esse “donne d’oltre frontiera”, dunque si intravede in ogni pagina del volume una curiosità paziente e quasi affettuosa nei confronti della ricerca in atto. Ricerca che l’autrice compie con meticolosità, mettendo in luce non solo le testimonianze di chi ha vissuto in prima persona l’esperienza migratoria, ma analizzando parallelamente i cambiamenti sociali, antropologici, economici e culturali che interessarono il mondo intero e, di riflesso questi territori dalla fine della Seconda Guerra Mondiale fino ai nostri giorni.
In copertina: immagine d’epoca presente nell’apparato fotografico del libro