Interviste

Questioni di gender nella diaspora italiana in America: una conversazione con Maddalena Tirabassi.

di MICHELA VALMORI

Maddalena Tirabassi è Direttrice del Centro Altreitalie sulle Migrazioni Italiane, Globus et Locus, e della rivista Altreitalie. Il Centro Altreitalie è nato sull’onda del successo di Altreitalie, Rivista Internazionale di Studi sulle migrazioni italiane nel mondo che ha iniziato le sue pubblicazioni nel 1989.

Gentile Dottoressa Tirabassi, Lei è Direttrice del Centro Altreitalie, e con lei vorrei parlare di gender e di italoamericanità. Inizierei con il chiederle qual è la mission di Altreitalie e quanto è stato raggiunto in questi anni di divulgazione della Cultura Italoamericana, e non solo?

Il Centro Altreitalie è nato sull’onda del successo di Altreitalie. Rivista Internazionale di Studi sulle migrazioni italiane nel mondo che ha iniziato la pubblicazione nel 1989, come luogo di ricerca, incontro, cooperazione culturale nel campo delle migrazioni e delle mobilità contemporanee. La sua attività, che si svolgono attraverso convegnistica e pubblicistica con una Collana dedicata, sono rivolte a vari tipi di pubblici, da quello accademico, a quella istituzione, agli italiani nel mondo più in generale. Il Centro ha contribuito sin dagli inizi ai molti progressi nello sviluppo del dialogo transnazionale della ricerca sulla diaspora italiana a partire naturalmente dagli Stati Uniti.

Ci sono ancora molti tratti oscuri della cultura italoamericana, di cui lei ha parlato ampiamente nelle sue pubblicazioni. Mi riferisco al traffico di donne, alla violenza e subalternità di genere in molte famiglie italoamericane, violenza alla quale le donne erano pressoché rassegnate, e che veniva scatenata da dinamiche patriarcali insite nella nostra società...

L’idea di dedicare un numero di Altreitalie alla storia della violenza che ha accompagnato, e che tocca tutt’oggi, le migrazioni delle donne è maturata proprio dalla constatazione di un vuoto storiografico sull’argomento. L’argomento è purtroppo vastissimo se si vogliono affrontare le violenze grandi e piccole, in particolare le manipolazioni da parte delle famiglie per imporre scelte di vita, come ha bene documentato la memorialistica statunitense

-Perché, secondo lei, alcuni aspetti della nostra diaspora sono ancora così sociologicamente ignorati? 

Sul perché a fronte di così tanti indizi, se non testimonianze, di violenze sulle donne in Italia non se ne trovi quasi traccia nelle storie dell’immigrazione nei paesi di insediamento, i motivi son molti. La storiografia italoamericana è stata scritta prevalentemente da americani di origine italiana e parlare di dinamiche e conflitti familiari è sempre stato un campo spinoso.
Saranno infatti le scrittrici e gli scrittori di più o meno lontana origine italiana a mettere in discussione gli stereotipi sul genere e a far uscire gli scheletri dagli armadi come Mary Jo Bona e Joanne Ruvoli.

A quale forma di educazione culturale si potrebbe ambire per promuovere anche gli aspetti meno conosciuti, legati al gender, dell’Italoamericanità? 

Divulgare la letteratura delle scrittrici e degli scrittori italoamericani e sviluppare l’insegnamento della storia italoamericana potrebbe essere un buon inizio. Alcuni testi come la Storia degli italoamericani di William Connell e Stanislao Pugliese che ho avuto il privilegio di curare nell’edizione italiana contengono saggi di autori come Fred Gardaphè e George De Stefano che hanno compiuto riflessioni sul gender preziosi per la ricerca transnazionale.

Perché, se posso chiederlo, Amy Bernardy è conosciuta solo agli addetti ai lavori?

Amy Bernardy, nata nel 1880 fu, secondo Pasquale Villari, la prima donna a laurearsi in Storia in Italia, giornalista, sociologa, con una seconda laurea in Paleografia, autrice di numerosissimi saggi, la più attenta osservatrice della grande emigrazione italiana eppure, come dice lei, quasi sconosciuta. La risposta secondo me è abbastanza semplice: si era schierata dalla parte sbagliata abbracciando il nazionalismo. Inoltre, professava esplicitamente le sue antipatie per il femminismo e le donne americane da lei considerate troppo libere anche se la sua intera vita è un esempio di emancipazione.

Quanto crede che dovremo aspettare per trovare corsi di cultura italoamericana nei nostri Atenei? E tra quanto Louise DeSalvo sarà una scrittrice riconosciuta dal nostro “canone” letterario nazionale, magari assieme a Igiaba Scego?

Se pensiamo alla fatica che hanno fatto gli scrittori ad arrivare al pubblico italiano, a parte alcune eccezioni come John Fante e Don De Lillo, non sono molto ottimista. È vero che molte scrittrici italoamericane sono state tradotte, ma spesso da piccole case editrici col risultato di non farcela a uscire dal mercato di nicchia dei dipartimenti universitari.

Chi è la scrittrice contemporanea italoamericana, e quale opera, secondo lei, dovrebbe essere letta da ogni donna in Italia?

Kim Ragusa, La pelle che ci separa, è il primo libro che mi viene in mente, perché tra le tante contiene una declinazione delle identità particolarmente attuale in Italia. Non possiamo peraltro dimenticare la saga di Umbertina, di Helen Barolini, o Paper Fish di Tina De Rosa. Ma ci sono tantissimi romanzi e memoir che potrebbero appassionare il pubblico italiano, se solo fosse data loro opportuna visibilità.

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