di VALENTINA DI CESARE
Le storie di emigrazione hanno un fascino inspiegabile: ognuna di loro si apre a scenari singolari e diversi, a ogni angolo della narrazione accade un episodio differente, che si incastra agli altri, dando luogo a un racconto sempre unico. Paul Pirrotta, protagonista dell’intervista di oggi, è emigrato da Canicattini Bagni, in provincia di Siracusa, stabilendosi nel Connecticut, dove vive una numerosa comunità canicattinese e dove sono numerosi anche i cittadini americani di origini siciliane e, più in generale, italiane. Il legame che Paul ha continuato a mantenere con la sua città natale è rimasto intatto, nonostante il passare degli anni, e lo ha portato a occuparsi del fenomeno migratorio che lui stesso ha vissuto e che ha investito molti suoi conterranei. Oltre ad alcune pubblicazioni, Paul ha creato un museo virtuale, ideato e realizzato ad Hartford, dove tuttora vive; dagli Stati Uniti collabora, con diversi progetti, a un Museo fisico, vero e proprio, il Museo Civico Tempo, che si trova in Italia, nel suo paese d’origine. Due spazi importanti uniti dal ponte della memoria e dell’impegno sociale e culturale.
Ricorda precisamente quando e come si rese conto che avrebbe lasciato il suo paese? E perché proprio il Connecticut?Ricordo che è stato un fulmine a ciel sereno. Abbiamo ricevuto i documenti dal Console americano dieci anni dopo che un fratello di mia mamma ci aveva messi in quota. Nel corso del tempo avevamo dimenticato. Quando arrivò la comunicazione io avevo 19 anni…Mio padre voleva raggiungere a tutti i costi gli Stati Uniti, il suo lavoro in campagna lo vedeva lavorare sette giorni la settimana, dal mattino fino al tramonto. Mia madre invece non aveva molta voglia di partire, non voleva lasciare mia nonna, ovvero sua madre, che con la nostra partenza sarebbe rimasta sola a Canicattini. In ogni caso siamo partiti nel 1969. Io poi sono tornato in Italia per finire l’ultimo anno di Ragioneria e diplomarmi, rientrando poi in America nel 1970. Il Connecticut è lo stato con la più alta percentuale di cittadini americani di origini italiane, e la contea di Hartford, in particolare, ha migliaia di persone nate a Canicattini. Quando siamo arrivati c’erano già persone che conoscevamo, tra parenti e amici, e quindi ambientarci è stato più semplice.
Ecco: rispetto ai tantissimi cittadini nella Contea di Hartford e che hanno origini canicattinesi può darci informazioni maggiori?
Pare che il primo o uno dei primi canicattinesi ad arrivare ad Hartford giunse nel 1904-05. Tra il 1905 e il 1925 migliaia di canicattinesi sono venuti in questa Contea perchè sapevano di poter contare sull’appoggio solidale dei concittadini. In questo territorio il contributo sociale e culturale dei cittadini canicattinesi è stato molto importante: la prima donna sindaco di Hartford si chiamava Antonella Uccello ed era figlia di emigranti canicattinesi. La stessa ex sindaca è stata anche la prima donna a ricoprire questo ruolo in una città capitale della regione. Ma anche in altri campi i canicattinesi hanno raggiunto ruoli prestigiosi.
Vi sono altre comunità provenienti da altri luoghi d’Italia particolarmente numerose in Connecticut? Di chi si tratta?
Molti siciliani, non solo di Canicattini, sono emigrati nella Contea di Hartford, mentre la maggior parte dei campani si sono stabiliti a New Haven e a Waterbury. Nella Contea di Hartford, oltre ai canicattinesi, molti emigranti provenivano dalla città di Floridia. Sia Canicattini sia Floridia sono in provincia di Siracusa.
Sono diverse le sue pubblicazioni sull’ emigrazione italiana e in più lei ha creato il museo virtuale “Casa emigranti italiani”. Che tipo di attenzione hanno ricevuto i suoi interessi?
Sicuramente da parte della gente le reazioni sono state positive e partecipate. Le mostre che abbiamo organizzato raccontano la storia degli emigranti italiani. Tanti di loro non erano a conoscenza di molti aspetti della loro vicenda o comunque avevano tralasciato molte cose. Quotidianamente mi arrivano richieste sull’indirizzo email del museo virtuale, si tratta di emigranti italiani o anche loro figli che mi chiedono aiuto per contattare qualche loro lontano parente, o almeno capire dove si trovano. Il mio interesse per le storie della nostra emigrazione è grande e con gli anni è cresciuto molto, tant’è che inaspettatamente e di recente, ho ricevuto l’invito (per me inatteso, quindi è stata una sorpresa molto emozionante) a partecipare alla consueta celebrazione che si svolge alla Casa Bianca dedicata alla storia di noi americani di origini italiane. E’ stato incredibile per me, la First Lady, Jill Biden era lì insieme a molti di noi.
Alcuni studiosi canicattinesi hanno dato vita, nella vostra città, ad un Museo dell’ Emigrazione che faccia da ponte tra le due sponde. Quali sono le sue impressioni sulla nascita di luoghi simili e qual è la loro utilità?
Sicuramente il museo di Canicattini è un esempio da seguire. Con le sue iniziative dedicate all’emigrazione e alla memoria di questa importante vicenda che ci vede tutti coinvolti, il museo potrà solo crescere. Io ho collaborato a diversi progetti pensati per e con il museo, e anche in questi mesi stiamo continuando a pensare nuove idee da realizzare. Quando la mia generazione, l’ultima della grande emigrazione italiana in America, finirà il museo sarà un luogo importante per mettere in connessione i nostri figli e i nostri nipoti. Tutto ciò per far sì che non si perdano mai le radici che ci tengono legati al paese che abbiamo lasciato molti anni fa.
Lei che è un emigrato di prima generazione ma che ha ormai le sue radici in un altro paese crede che ci sia parallelismo tra l’emigrazione italiana del passato e quella di oggi? E tra la grande emigrazione
italiana del passato e l’immigrazione in Europa di questi decenni?
In una delle mie pubblicazioni, ho affermato che “uno più uno fa tre”. Con questa frase volevo intendere che la base culturale (parlo dell’educazione in famiglia sommata a quella scolastica acquisite in Sicilia) combinata con il sistema economico americano mi ha reso una persona migliore. Se fossi cresciuto soltanto a contatto con una sola delle due culture, italiana o americana, forse non sarebbe stato lo stesso. L’emigrazione comporta, oggi come ieri, diversi problemi e tensioni da risolvere nel breve termine ma, a mio avviso, a lungo termine porta enormi benefici. Le forze politiche contrarie all’emigrazione volevano ad esempio che noi italiani fossimo espulsi, cacciati dal paese…Ci vedevano come pigri, disposti a tutto per far qualche soldo e poi tornare in patria, senza alcuna intenzione di diventare cittadini americani. Agli inizi del Novecento le testate giornalistiche parlavano come quelle di oggi ma ora, allo stato attuale, chi potrebbe dire che negli Stati Uniti si sarebbe vissuto meglio se gli emigranti italiani ( o di altre nazionalità) fossero stati rimandati a casa?
Ha l’impressione che in Italia l’ esperienza migratoria che ci riguarda sin dalla seconda metà dell’ Ottocento venga il più delle volte messa da parte, e che non siano sufficientemente numerose le occasioni di riflessione sul tema? Se sì, secondo lei perchè ciò avviene?
Concorso, forse qualcuno si vergogna di quel passato di grande miseria, della mancanza di istruzione che affliggeva la maggior parte della gente comune, della durezza dei lavori che gli italiani hanno accettato di fare pur di non restare senza, o forse c’è anche chi non vuole mettere gli emigrati italiani sullo stesso piano degli immigrati che attualmente raggiungono l’Italia o gli altri paesi europei. Non c’è dubbio, come ho già detto, che da sempre l’arrivo degli emigranti porti problemi sociali non facili da affrontare e da risolvere, ma a lungo termine queste persone saranno i cittadini in grado di dare un futuro migliore alla nostra canzone.
In copertina: illustrazione di MASSIMO CARULLI